Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Luigi Maria Grignion di Montfort a cura di Ermes Dovico
ORA DI DOTTRINA / 84 - IL SUPPLEMENTO

Quando il mondo si ritrovò ariano

Il IV fu un secolo di grande confusione per la Chiesa con l'eresia ariana che diede origine a diverse varianti che sconquassarono il mondo cattolico. E dopo le decisioni del Concilio di Nicea si registrò una maggiore diffusione dell'arianesimo e del semi-arianesimo.

Catechismo 01_10_2023
Ario

Un secolo di crisi acuta e totale disorientamento: vescovi contro vescovi, una pletora di simboli della fede ambigui, imperatori che pensavano di imporre l’unità della Chiesa a suon di decreti. I fedeli si ritrovavano con vescovi ariani che sostituivano quelli ortodossi deposti; i quali poi venivano reintegrati, per essere poi nuovamente deposti.

Il Concilio di Nicea avrebbe dovuto in teoria compattare i pastori attorno al Simbolo niceno, approvato il 19 giugno 325, che proclamava la verità del Figlio consustanziale al Padre: «di una sola sostanza con il Padre (ciò che in greco si dice homousion)» (Denz. 125). Dei 318 Padri presenti, quasi tutti approvarono il testo. Incluso il vescovo che sarà poi tra i più grandi agitatori della confusione, Eusebio di Cesarea (265-340ca), il quale, appena concluso il Concilio, si era tuttavia premurato di dare ai propri fedeli un’interpretazione del Simbolo non conforme agli intenti del concilio niceno.

I Padri avevano altresì approvato l’anatema conclusivo, che colpiva appunto quanti avrebbero affermato che «il Figlio di Dio [è] da un’altra ipostasi o sostanza o creato» (Denz. 126). L’interpretazione corretta del testo, nel contesto del Simbolo e dell’intento dei Padri di condannare il prete Ario e la sua dottrina, portava a ritenere il termine “ipostasi” come sinonimo di essenza, come reso nel testo latino; ma “ipostasi”, in greco, significa anche persona. Questa ambiguità letterale porterà molti vescovi ortodossi ad opporsi all’affermazione del concilio, ingrossando così le fila di quanti invece vi si opponevano perché avevano una dottrina diversa.
Dunque, dopo l’assise del 325 ci si aspettava l’unità e la concordia nella Chiesa; ne venne invece non solo la divisione, ma anche una maggiore diffusione dell’arianesimo e di una nuova posizione errata, che per comodità chiamiamo semi-arianesimo.

L’arianesimo originario affermava un’eresia trinitaria e cristologica. Solo il Padre è veramente Dio, mentre il Figlio è la prima delle creature, strumento e intermediario della e per la creazione. Lo Spirito Santo sarebbe invece la «prima produzione del Verbo». Sul versante cristologico, gli ariani sostenevano che il Verbo non aveva assunto la natura umana integrale, ma solo la carne, e dunque non era né vero Dio né vero uomo. È per prendere posizione su questa eresia che venne convocato il concilio niceno. Ma la condanna ebbe l’effetto collaterale di stimolare versione eterodosse più sottili e perciò più insidiose, maggiormente in grado di attecchire anche tra quei vescovi che avevano preso parte al concilio e ne avevano approvato gli atti.

La strategia ariana seguente al concilio si fece più astuta e cauta per riuscire ad ottenere l’appoggio del potere imperiale, con il pretesto di stabilire l’unione tra l’episcopato. È chiaro che gli imperatori auspicavano una tale unione, che avrebbe chiaramente avuto riflesso positivo sulla coesione dell’impero; e per questo pensarono di proporsi come centro di unità della cristianità. Ma pensare la Chiesa con categorie politiche e meramente pratiche non ha mai portato buoni frutti, perché la Chiesa è una realtà sacramentale, ordinata, divinamente istituita; l’attentato alla sua natura e costituzione, per quanto nobili possano essere le finalità, finisce sempre per creare ancora più problemi.

Il punto di convergenza di convinzioni molto diverse tra loro era di fatto il rifiuto del termine homousios, presente nel simbolo del concilio niceno. E, di conseguenza, l’aspra lotta contro coloro che questa formulazione intendevano difendere a qualsiasi costo, in primis il grande sant’Atanasio. Ne vennero una serie di simboli apparentemente consonanti con la formula nicena, ma che appunto, si proponevano di escludere l’homousios, e cercando invece di far cadere sul concilio del 325 l’accusa di sabellianesimo, ossia di negare la differenza delle tre persone. Sinodi e concili vennero convocati per sfornare nuove formule e gettare ogni genere di accusa contro Atanasio.

A nutrire il fronte di opposizione al concilio di Nicea vi erano anzitutto gli anomei, ossia la prosecuzione dell’arianesimo più puro, i quali proclamavano che il Figlio era dissimile da Dio, non era Dio. Tra loro emergevano personaggi di grande intelligenza, come l’aristotelico Aezio di Antiochia, e di grande calibro, come Eudossio di Costantinopoli (300-370), che divenne sotto Costanzo (317-361) vescovo della città imperiale. O come Eunomio vescovo di Cizico (+393), contro il quale san Basilio Magno (329-379) scrisse il famoso trattato Contro Eunomio.

Poi c’erano gli omeusiani (o omoiusiani), che sostituirono l’homousios niceno che indicava la stessa essenza del Figlio e del Padre, con il termine homoiousios, che affermava invece la somiglianza del Figlio al Padre, quanto all’essenza. Ora il nuovo termine, che aveva uno iota in più rispetto a quello niceno, si prestava ad essere molto elastico nell’interpretazione: per questo ottenne molto consenso. Anche da parte dell’imperatore Costanzo, che in un primo momento aveva accolto e imposto una formula più strettamente anomea. Tra i personaggi più importanti di questa corrente, troviamo Basilio d’Ancira (+362).

Dunque, il termine escogitato dagli omeusiani poteva essere interpretato in senso ortodosso, ossia come l’affermazione della divinità del Figlio: il Verbo era solo simile al Padre, perché non era il Padre, pur essendo Dio. Inoltre, poteva sembrare persino correggere l’ “equivoco” niceno, in quanto la dichiarazione della consustanzialità del Figlio con il Padre sembrava spingere verso l’annullamento della distinzione tra i due; dubbio che appariva corroborato ‒ come si è visto ‒ dalla condanna, presente nel Simbolo di Nicea, dell’affermazione che il Figlio sarebbe di un’altra ipostasi rispetto al Padre (dove ipostasi stava per sostanza/essenza, non per persona).

Ancora più insidiosa fu una nuova metamorfosi degli ariani, che divennero omeisti. Dopo infinite discussioni e dopo i concili di Rimini e di Seleucia, entrambi nel 359, si giunse al concilio di Costantinopoli (360), nel quale si approvò una formulazione ancora più elastica: si decise di non parlare più né di ousia (sostanza) né di hypostasis (essenza o persona, a seconda dei contesti), giustificando questa scelta con l’apparentemente ragionevole motivazione che non si tratta di termini contenuti nelle Sacre Scritture. Dunque, perché rischiare la divisione della Chiesa, quando nemmeno le Scritture esigono il ricorso a precisi termini filosofici? L’opzione troverebbe oggi concordi molti sostenitori di un errato ecumenismo, che vorrebbero rendere non vincolanti formulazioni del dogma che ricorrono alle categorie della filosofia greca, come, per esempio, la transustanzazione.

La formula fu accolta dall’imperatore Costanzo e imposta all’accettazione di tutti: la pena, per i vescovi ostinatamente niceni, era la deposizione dalle loro sedi e l’esilio. In effetti si trattava di una formula perfetta per instaurare una pace meramente umana: il Figlio era considerato simile al Padre in ogni cosa. Si poteva intendere “simile” (homoios) nel senso di uguale nella divinità, ma diverso come persona; interpretazione che fu data sia dai niceni, sia dagli omeusiani; oppure simile nel senso che il Figlio non è veramente Dio come il Padre, ma simile a lui. Di fatto, praticamente tutti i vescovi orientali l’accettarono. È in riferimento a questa débâcle, che san Girolamo pronunciò la famosa esclamazione: «E il mondo, sgomento, si ritrovò ariano».

Si può già intuire che, soprattutto rispetto agli omeusiani, la vera posta in gioco era “ecclesiale”. Perché il vero punto di discordia tra ortodossi e semi-ariani riguardava l’autorità di un concilio ecumenico e dunque l’autorità che la Chiesa ha di vincolare la fede dei credenti nella spiegazione del dogma. Ma ci ritorneremo.