Le manovre Dem per conservare il potere senza Biden
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Dopo la figuraccia di Biden, il Partito democratico americano è nel caos, ma è probabile che i Dem ritengano di avere ancora in mano contro Trump una pistola giudiziaria abbastanza carica da poterlo ostacolare in misura decisiva.
Il primo dibattito elettorale televisivo tra Joe Biden e Donald Trump ha posto impietosamente sotto gli occhi del mondo intero la verità che tutti in realtà già sapevano, che era stato più volte mostrato da altre occasioni mediatiche, ma che fino a ora gli ambienti più vicini al presidente statunitense a fine mandato avevano cercato di aggirare in ogni modo: le condizioni psicofisiche di Biden sono talmente deteriorate da renderlo quasi del tutto inabile a ricoprire il delicatissimo ruolo di presidente di una nazione, e ancor più della prima potenza economica, politica e militare del mondo. A maggior ragione, appare un azzardo quasi folle pensare che egli possa svolgere questo incarico addirittura per altri quattro anni.
Al cospetto di questa verità evidente, lo sfidante ed ex presidente Trump non ha avuto nemmeno bisogno di infierire: gli è bastato mantenere un contegno più misurato del solito ed esporre le sue tesi con semplicità per sottolineare ulteriormente la differenza abissale di performance che attualmente intercorre tra lui e Biden, molto maggiore degli appena tre anni di età che li separano, e quindi stravincere il dibattito per “k.o. tecnico”. Incrementando il suo vantaggio nelle intenzioni di voto, e soprattutto la convinzione, anche in chi lo avversa, che la sua vittoria, allo stato attuale del confronto, sia nell'inerzia delle cose.
Viceversa, l'“esposizione” ormai senza più filtri delle condizioni di Biden ha creato il caos nello schieramento del partito democratico, nei media con esso allineati (gran parte dell'informazione mainstream statunitense) e nell'entourage presidenziale. Per quattro anni era stata alimentata l'illusione che Biden governasse in prima persona, mentre era in realtà “gestito” dagli apparati federali e, verosimilmente, dai “clan” Obama e Clinton, per paura di quello che sarebbe potuto accadere se l'amministrazione avesse mostrato pienamente la sua debolezza, davanti alla nuova ascesa di Trump nei consensi, alla sua carica anti-establishment e alla forte opposizione sociale che egli ha continuato a rappresentare.
Ma ora, di fronte a quello che sembra un vicolo cieco, la finzione è brutalmente saltata, ed è esplosa una contrapposizione tra le voci che si sono levate per chiedere al presidente, pur esprimendogli vicinanza, un passo indietro e quelle, più legate al suo inner circle, che continuano a sostenere che Biden può vincere le elezioni e portare avanti il suo compito. Posizioni, queste ultime, puntellate dal pronunciamento dello stesso Biden, che in un comizio subito dopo il dibattito televisivo ha ribadito di essere ancora “abile”, cercando di galvanizzare i suoi sostenitori, e dai membri del suo staff che hanno fatto notare la rilevante quantità di finanziamenti ricevuti dalla sua campagna dopo lo show alla Cnn, segno che gli elettori crederebbero ancora nelle sue possibilità e capacità. Il risultato è che, ad oggi, nel campo democratico regna una incertezza assoluta, dietro la quale si percepiscono divisioni profonde.
Tra le voci che spingono per la rinuncia di Biden si sono fatti particolarmente notare personalità vicine a Obama. E tanto è bastato per riaccendere le supposizioni che vorrebbero l'ex presidente tra i più decisi nel programmare una possibile sostituzione di Biden in corsa per salvare il salvabile: con il governatore della California Gavin Newsom, considerato a lui particolarmente gradito, o addirittura con la moglie Michelle, pronta a una “discesa in campo” accuratamente preparata. Ma, ammesso che Obama e la sua cerchia coltivino tali intenzioni, un passaggio del genere è più facile a pensarsi che a farsi.
Occorre ricordare, infatti, che la scelta del vicepresidente di Obama come candidato nel 2020 era stata un tentativo di rintuzzare le pressioni dell'ala radicale del partito, agitato da figure come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortéz, riunendo la sinistra e i moderati intorno a una figura “paterna” e rassicurante per l'elettorato. “Rimuovere” oggi, per manifesta incapacità, Biden significherebbe per i Dem – quand'anche si riuscisse a convincere il presidente e candidato designato a farsi da parte spontaneamente, condizione necessaria secondo le regole delle primarie - ritornare sostanzialmente al punto di partenza, e (ri)aprire una guerra di tutti contro tutti dagli esiti molto incerti.
Ma soprattutto la designazione del nuovo candidato dovrebbe avvenire direttamente, “senza rete”, nella Convenzione Dem del prossimo agosto, e il nominato dovrebbe gettarsi immediatamente nella contesa finale di novembre contro Trump, affrontando un rivale dalla notorietà e riconoscibilità immediata senza avere il tempo di far conoscere adeguatamente i propri programmi e parole d'ordine dall'elettorato.
Tali oggettive difficoltà potrebbero portare, nonostante tutto, la classe dirigente Dem a cercare di riproporre ancora fino allo stremo la “fiction” di un Biden lucido, contro ogni verosimiglianza, e a rischiare ulteriori meschine figure, e una sconfitta che diventa sempre più probabile, pur di non andare incontro a un ignoto per loro ancora più spaventoso.
Se questo appare un espediente a prima vista disperato, vale la pena tuttavia di ricordare che fino ad ora il fuoco di sbarramento contro la prospettiva di un secondo mandato a Trump è stato realizzato in primo luogo attraverso mezzi giudiziari, con una clamorosa distorsione politica della magistratura, attraverso procedimenti evidentemente inquinati da una tendenza all'uso della macchina giudiziaria contra personam, secondo quella che già abbiamo definito la “sindrome italiana” in cui è caduto il sistema politico-istituzionale statunitense.
Come è noto, il tycoon newyorkese ha subito una condanna in primo grado, a luglio gli sarà irrogata una pena (che potrebbe essere persino detentiva) e lo aspettano altri processi nei prossimi mesi. È probabile che i Dem ritengano di avere ancora in mano contro di lui una pistola abbastanza carica da poterlo ostacolare in misura decisiva, e contare addirittura di assestargli un colpo politicamente letale.
E va ricordato, in aggiunta, che l'elezione di Biden nel 2020 avvenne con modalità assolutamente inedite e irrituali per la storia americana, complice anche l'atmosfera di paura instillata dall'emergenzialismo Covid: due terzi dei voti pervenuti per posta con garanzie di rispetto per la privacy, l'identità degli elettori e l'autenticità del suffragio gravemente carenti.
Quel vulnus evidente alla consultazione democratica – che condusse alle veementi proteste dei sostenitori di Trump, degenerate con l'invasione del Campidoglio da parte di alcuni di essi – resta un campanello d'allarme di fondo anche sulla regolarità delle prossime elezioni. E resta palpabile, in fondo, la sensazione che i Dem pensino comunque di poter vincere la partita, se ogni altra condizione viene meno, rovesciando il tavolo.