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EDITORIALE

Le canzoni di Chieffo, profezia per la Chiesa di oggi

«Carissimo amico....». Comincia così il dialogo di monsignor Luigi Negri con Claudio Chieffo, morto il 19 agosto di dieci anni fa. Un dialogo che prende spunto da alcune composizioni di Chieffo, che – dal momento dell’incontro con Gioventù Studentesca di don Luigi Giussani all’inizio degli anni ’60 - ha composto oltre cento canzoni che sono diventate patrimonio di tutto il mondo cattolico. 

Editoriali 19_08_2017
Claudio Chieffo con mons. Negri al Meeting di Rimini

Il 19 agosto del 2007, all’età di 62 anni, moriva Claudio Chieffo, l’indimenticato cantautore che – dal momento dell’incontro con Gioventù Studentesca di don Luigi Giussani all’inizio degli anni ’60 - ha composto oltre cento canzoni che sono diventate patrimonio di tutto il mondo cattolico. Molte di queste sono anche comunemente usate nella liturgia. A dieci anni dalla morte vogliamo ricordarlo con monsignor Luigi Negri, a cui era legato da una lunga e profonda amicizia. 

Carissimo amico, 

In questa continua presenza di te, che è uno dei grandi conforti della mia esistenza, sono due le frasi profetiche delle tue canzoni che si rinnovano e si approfondiscono ogni giorno di più.

La prima è quella indimenticabile visione del «popolo che canta la sua liberazione». Il popolo non canta i suoi successi, i suoi progetti, le sue strategie, i suoi sentimenti, i suoi risentimenti, che avviliscono l’esistenza umana in tutti i suoi aspetti. Il popolo canta il miracolo del Signore che fa di noi una umanità nuova, ci lega a Sé e in questo stretto legame a Lui nasce quello che già l’antico scrittore pagano Plinio ricordava al suo imperatore: una «entità etnica sui generis», frase poi ripresa dal beato Paolo VI in uno straordinario intervento nell’udienza generale del 28 giugno 1972. 

Noi siamo il popolo del Signore. Questo non cancella i limiti, le fatiche, i dolori, le tensioni; ma la radice della nostra esistenza è quella per cui ci alziamo ogni giorno - come ci ricordava don Giussani -, ci diamo da fare tutta la giornata, amiamo i nostri fratelli, ci sentiamo spinti dentro il nostro cuore dal desiderio di comunicare Cristo a tutti quelli che ci sono accanto. Tutto questo non è un mondo strano, è il mondo di Dio cui siamo chiamati a partecipare. 

Tu l’hai cantato questo popolo di Dio con toni indimenticabili, e fino agli ultimi giorni della tua vita - segnata così duramente dalla malattia - hai portato nel mondo la letizia di una vita rinnovata che si approfondisce ogni giorno. E nell’approfondirsi tende irresistibilmente a diventare fattore di comunicazione agli uomini, nella certezza che soltanto in questa comunicazione, che è missione - la grande parola di Giussani che tu hai ripreso infinite volte nei canti –, l’uomo di questo tempo, come di ogni tempo, può trovare la rivelazione definitiva della sua umanità.

È una novità che vince ogni giorno il male, che supera ogni giorno la meschinità, che restituisce ogni giorno alla nostra vita le dimensioni della fede, della speranza, della carità in cui diventa esperienza la vita divina che ci è stata concessa in dono dal momento del nostro Battesimo.

L’altra grande frase è: “I nemici di un tempo tornano vincitori” (dalla canzone “La guerra”, ndr). Io sono lungi dal giudicare la vita della Chiesa, della cristianità, in cui ci sono tanti fattori di novità e tanti fattori di crisi. So soltanto che inaspettatamente e imprevedibilmente sono tornati ad essere in posizione preminente e prevalente nella vita della cristianità coloro che per anni avevano contestato silenziosamente – e quindi anche ipocritamente - la grande novità del magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, il magistero che ridava alla Chiesa il suo protagonismo nella storia, la sua inevitabile responsabilità di aprire ogni giorno il dialogo fra Cristo e il cuore dell’uomo. Contestavano silenziosamente come se si trattasse di un integralismo, di una incapacità di distinguere i piani, di una incapacità di rispettare la coscienza degli altri. Oggi c’è un settore della cristianità che è ritornato a prima di Giovanni Paolo II, quindi a tutte le incertezze, le fatiche della interpretazione autentica e corretta del Concilio in cui tensioni ed esagerazioni sono state perpetrate accanto ad altri tentativi positivi. 

Oggi c’è un settore della cristianità che ripropone la presenza cristiana non come una presenza che investe il mondo della certezza della fede, nel limpido giudizio che Cristo e solo Cristo è il senso del cosmo e della storia; ma una presenza che si schiera accanto al mondo, su cui non propone nessun giudizio assumendo soltanto delle iniziative caritative e sociali. E questo, per chi ha vissuto la grande stagione di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI è certamente un sacrificio. È il sacrificio che offro ogni giorno al Signore per la conversione del mio cuore, per il bene della Chiesa e dell’umanità.

* Arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio