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Ora di dottrina / 138 – Il supplemento

Le 95 Tesi di Lutero e la rottura con Roma

Nel contesto di un papato in decadenza, emersero le 95 Tesi di Lutero: ma furono davvero affisse alla porta della cattedrale di Wittenberg? Le obiezioni di un gesuita. Di certo, nel 1520 il monaco tedesco pubblicò tre opere con cui manifestava al mondo la sua rottura con la Santa Sede.

Catechismo 17_11_2024

«Tre cose sono in vendita a Roma: Cristo, il sacerdozio e le donne. Tre cose sono in odio a Roma: un concilio generale, la riforma della Chiesa, e il risveglio della Germania. Tre mali mi auguro per Roma: la peste, la carestia e la guerra. È questa la mia trinità». Il testo, tratto dalla Trias Romana dell'umanista tedesco Ulrich von Hutten (1488-1523) e scritto nel 1520, esprime senza troppi giri di parole come, in ampie parti degli innumerevoli ducati e principati che caratterizzavano l'area geografica dell'attuale Germania, fosse percepita la Chiesa di Roma. Una linea di demarcazione tra l'aspetto propriamente teologico e morale di questo disprezzo e quello più propriamente politico-strategico è quasi impossibile da individuare, complice anche il fatto che, come abbiamo visto, il papato era considerato sempre di più come un concorrente politico, quando non un dichiarato antagonista.

Il 1520 fu anche l'anno in cui il monaco agostiniano, Martin Luther (1483-1546), manifestò al mondo la sua rottura con la Sede Apostolica. Nella primavera di quell'anno, pubblicò la sua risposta, dall'eloquente titolo Contro l'esecrabile bolla dell'Anticristo (l'Anticristo era il papa, ça va sans dire), con cui Leone X gli intimava di ritrattare le proprie posizioni, pena la scomunica; nel mese di dicembre bruciò la stessa bolla nella pubblica piazza. Nello stesso anno vennero pubblicate le tre opere che tracciavano le linee guida della rivoluzione: la lettera An den christlichen Adel deutscher Nation, con la quale incitava la nobiltà tedesca a sollevarsi contro i “tre muri” dei Romani, ossia il papa come ultima istanza nell'interpretazione autentica della Rivelazione, il papa come unica autorità per la convocazione di concili ecumenici e soprattutto la superiorità del potere spirituale su quello temporale; era piuttosto chiaro che, con quest'ultimo tema, Lutero intendeva offrire copertura teologica alla volontà politica dei principi tedeschi di mettere le mani sulla Chiesa.

La seconda opera fu il trattato De captivitate babylonica ecclesiæ præludium, con il quale andava smantellando il sistema sacramentale che, a suo avviso, teneva la Chiesa in esilio, lontano dalla libertà della parola e della fede; espunti dal settenario sacramentale l'Ordine, il Matrimonio, l'Unzione degli infermi e la Confermazione, in quanto sarebbero senza alcun fondamento biblico, per gli altri tre veniva rifiutata la dottrina dell'ex opere operato, mentre l'efficacia sacramentale veniva interamente riversata sulla fede di colui che si accostava a questi “sacramenti”: per il Battesimo, la fede di colui che lo riceveva o dei genitori; per la Penitenza, la fiducia nel perdono, senza alcuna funzione assolutoria del ministro; per l'Eucaristia, la fede di colui che riceve il pane “consacrato”. Le virgolette sono d'obbligo perché, nell'insegnamento cattolico, Lutero vedeva una triplice ulteriore prigionia: quella di voler imporre l'ipotesi teologica della transustanziazione come se fosse vincolante; quella di tenere lontano i fedeli dalla comunione con le specie del vino, imponendo la comunione con la sola specie del pane; quella di considerare l'Eucaristia un sacrificio.

L'ultimo trattato del 1520 fu la lettera Von Freiheit eines Christenmenschen, con la quale si affermava la libertà del cristiano dalle opere, in virtù della salvezza che viene dalla fede. Le opere, nella visione di Lutero, rimangono come frutto del cristiano, ma perdono ogni valore salvifico.

Abbiamo parlato del 1520. Ma la cosiddetta “Riforma” non ebbe inizio il 31 ottobre 1517, quando Lutero affisse alla porta della cattedrale di Wittenberg le famose 95 Tesi? A ben vedere, pare che Lutero non affisse proprio nulla. La ricostruzione che ne ha fatto il gesuita Giancarlo Pani sulle colonne de La Civiltà cattolica appare convincente (non senza qualche riserva su alcuni passaggi dell'articolo).

Il contesto, è bene ricordarlo, fu quello di una predicazione eccessiva e non del tutto “in squadra” sulle indulgenze. Giulio II necessitava di denaro per pagare gli ingenti debiti contratti per la costruzione della nuova Basilica sul colle Vaticano e chiamò in soccorso il popolo cristiano, legando delle indulgenze alle offerte di denaro. Vennero inviati un po' ovunque dei predicatori, per incentivare i fedeli alla “generosità” e, in alcuni casi, non si badò troppo alla precisione dottrinale pur di far cassa. A Wittenberg venne destinato il domenicano Johann Tetzel (1465-1519), sul quale si costruì un'ingiusta leggenda nera, ma che sembra non badasse troppo a insegnar alle persone che, per lucrare le indulgenze, occorresse essere in grazia di Dio e ricusare ogni affetto al peccato. Alcuni predicatori sembravano più dei contabili preoccupati di far cassa.

La prima considerazione sollevata da Pani riguarda la lingua scelta per queste “Tesi”: il latino, in effetti, non sembra deporre per una volontà di destinazione pubblica del testo, quanto piuttosto per considerazioni destinate al confronto con una cerchia ristretta di persone. E infatti, in una lettera del novembre 1518 a Federico il Saggio (1463-1525), Lutero si scusò con il principe per non avergli inviato personalmente quelle Tesi che stavano facendo il giro del mondo, in quanto, nelle sue intenzioni, erano destinate ad Alberto di Brandeburgo Hohenzollern (1490-1545), arcivescovo di Magonza, e al proprio vescovo, Hieronymus Schulze (1460-1522). A riprova della volontà di riservatezza di queste Tesi, si ha testimonianza anche dei “rimproveri” degli amici di Lutero, che si lamentavano appunto di non essere stati coinvolti in questa sua decisione. Ad essi, in una lettera riportata da Pani, Lutero aveva così risposto: «Alla tua meraviglia perché io non abbia divulgato le Tesi a voi, rispondo: non era mia intenzione, né mio desiderio farle circolare […] Ma ora che vengono stampate e diffuse ben al di là della mia speranza, mi pento di questa mia creatura, non già perché non mi interessi che la verità sia conosciuta da tutti (che era anzi la mia unica aspirazione), ma perché una maniera del genere [di Tesi per una disputa] non è adatta per istruire il popolo. Su alcuni punti infatti non sono sicuro io stesso: perciò, se avessi sperato un simile successo, alcune cose le avrei affermate in modo molto diverso e più esatto, o le avrei lasciate cadere».

Si tratta di documenti che sembrano suggerire che, all'epoca della stesura di queste Tesi, Lutero non avesse intenzione di arrivare ad una frattura né con il proprio vescovo né ancor meno con il papa. Preso atto della diffusione delle Tesi e dell'entusiasmo che esse avevano creato, Lutero cercò di circostanziare meglio il proprio pensiero con un sermone pubblico e, per i “tecnici”, con le Resolutiones disputationum de indulgentiarum virtute; in una lettera indirizzata al papa, ancora protestava la sua fedeltà all'autorità della Chiesa e la sua volontà di rimanere fedele non solo alla Rivelazione, ma anche ai Padri e ai decreti dei papi.

Fu cinica strategia? O fu la sincera comunicazione della propria volontà? Difficile dirlo. Pani ha comunque ragione di far notare che «la diffusione delle Tesi, se non fu provocata da Lutero, non fu da lui efficacemente contrastata: l’attenzione rivolta alla sua persona fugò via via i suoi propositi di raccoglimento interiore e di ripensamento». Detto in altro modo: l'essersi ritrovato investito del ruolo di “salvatore della Chiesa” non gli dispiacque affatto. Qualcun altro aveva spinto le Tesi di Lutero, ma l'essersi trovato al centro di un consenso tanto esteso e di fatto a capo di un movimento di contestazione della situazione in cui versava la Chiesa – condizione oggettivamente preoccupante – influì non poco nel portare il monaco di Wittenberg su posizioni sempre più estreme.



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