Lavoro e immigrati, i fuorvianti cliché di Avvenire
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Secondo il quotidiano della Cei, il divario tra offerta e domanda di lavoro può essere colmato solo dagli immigrati. Ma c’è immigrazione e immigrazione. Idem per la manodopera. Il dietrofront della Germania insegna.
«Ce la faremo!», annunciò Angela Merkel, mentre lanciava nel 2015 l’operazione “Porte aperte”, ai richiedenti asilo provenienti dalla Siria e dall’Iraq. Dieci anni e due milioni e mezzo di profughi dopo, la Germania non ce la fa più e l’Europa prova a svegliarsi con lei. Per dieci anni, l’appello tedesco ha vanificato gli sforzi dei Paesi in prima linea per contenere l’immigrazione. Ma, con un’improvvisa oscillazione del pendolo, Berlino ha appena deciso di ristabilire i controlli alle frontiere, sta valutando procedure di asilo accelerate e restrizioni sull’assistenza sociale per gli immigrati irregolari e in cerca di fortuna.
La Germania aveva aperto le porte per importare proprio quel tipo di immigrazione utile alla mancanza di manodopera. Dopo dieci anni, affronta una crisi del lavoro senza precedenti con un calo delle posizioni grandemente retribuite nel settore manifatturiero. Il tasso di disoccupazione è salito al 6%, dopo un minimo storico del 4,9% registrato nel 2019, ma i dati ufficiali nascondono la perdita di posti altamente qualificati. Se, infatti, da un lato mancano di nuovo gli operai, altrettanto si può dire dei settori chimico, tecnologico, farmaceutico.
Lo stesso vale per Olanda, Francia, Svezia e persino Regno Unito con il partito laburista di Starmer: tutti alle prese con politiche migratorie fondate su respingimenti, niente case, zero permessi di soggiorno e un biglietto di sola andata per tornare in patria.
Anche l’Italia vive la sua esperienza di cambio radicale. Ma, mentre nel resto dei Paesi europei le politiche di governo non trovano l’ostruzionismo delle toghe, l’Italia vive l’ennesimo dramma di una querelle imposta da alcuni Pm circa l’opportunità della gestione dell’immigrazione con il trasferimento di immigrati irregolari in Albania. E, in un momento estremamente delicato, accade persino che il giornale dei vescovi italiani s’affretti a imporre la linea costruendo uno strano ponte tra Chiesa e magistratura.
L’opportunità è offerta dai dati di Bankitalia di cui Avvenire dispone in anteprima. Secondo il quotidiano, «le ultime previsioni di Confindustria dicono che c’è bisogno di 120mila lavoratori immigrati per i prossimi cinque anni, al netto della quota annuale di 151mila lavoratori stranieri già prevista nel decreto flussi per il triennio 2023-2025. Al tempo stesso, se si osserva il nostro andamento occupazionale dal 2007 al 2023, grazie ai dati forniti in esclusiva ad Avvenire dalla Banca d’Italia, è possibile vedere quanto sia già stato determinante il contributo dei lavoratori non nati in Italia con una crescita del numero di occupati del 2,9%, totalmente attribuibile ai lavoratori stranieri, secondo quanto scritto nel capitolo su “Il contributo di nativi e stranieri alla crescita dell’occupazione”, che verrà reso disponibile mercoledì con la pubblicazione “L’Economia delle regioni Italiane” (ERIT). In sintesi, la Banca d’Italia dice che il contributo dei lavoratori stranieri è stato finora fondamentale, ma tornando a guardare al futuro, che cosa accadrà nei prossimi cinque anni al mercato del lavoro? Nei primi sei mesi del 2024, oltre due terzi delle imprese italiane con ricerche di personale in corso (il 69,8%) ha riscontrato difficoltà di reperimento […]». E allora Avvenire si domanda: «Che fare per colmare questo potenziale aumento del mismatch quantitativo? Questo potrebbe essere colmato solo ampliando gli ingressi dei lavoratori stranieri, arrivando a 120 mila all’anno».
Per Avvenire, dunque, tutto si risolverà in un sereno passaggio dall’accoglienza all’integrazione di quegli immigrati che il governo Meloni vuole far sbarcare in Albania. Ecco l’inganno ideologico di una rappresentazione molto lontana dalla realtà. L’Italia è una nazione a vocazione anche industriale e in una politica che, recentemente, sta provando a spostare il paradigma dello statalismo a tutti i costi per rilanciare l’industria nostrana, è normale che vi sia uno spazio per lavoratori stranieri. È sempre stato così in qualsiasi nazione del mondo con un’economia simile.
È però fuorviante cercare di “vendere” quella parte di lavoratori stranieri con quanti arrivano sui barconi. Come si può sovrapporre l’immigrazione regolare con quella irregolare? E come fingere di non sapere la differenza tra lavoratori qualificati e non?
Il caso Germania che abbiamo raccontato in esordio, e che è il più esemplificativo, manifesta come l’ingresso di stranieri irregolari serva solo a soddisfare la domanda di lavori a basso salario che ha creato, nel tempo, una violenta concorrenza al ribasso. E, anche qualora questo morbo venisse estirpato, resterebbe il problema alla radice: si tratta di lavoratori non qualificati e che nella stragrande maggioranza dei casi non intendono neanche restare. Non è risolto, quindi, il problema dell’occupazione.
Il caso tedesco, francese, svedese e, in tante circostanze, anche italiano, ci racconta che quel tipo di immigrazione irregolare di massa sa produrre solo schiavi – vedi il caso Satnam Singh, e criminali – vedi gli attentati di matrice islamica in Europa negli ultimi dieci anni.
Avvenire parla di un “lavoro che serve”. Dall’altro lato c’è lo studio di un antropologo e giornalista americano, Stephen Smith, che si è occupato di Africa per Libération e poi per Le Monde e insegna Studi africani alla Duke University. Nel suo libro, Fuga in Europa, analizza l’invecchiamento dell’Europa e l’emergere della giovane Africa la quale, visto che sta uscendo dalla povertà assoluta, si metterà in marcia verso il Vecchio Continente. Per fare un esempio, da qui al 2100 tre persone su quattro del mondo saranno nate a sud del Sahara e l’Europa fra trent’anni potrebbe avere dai 150 ai 200 milioni di afro-europei. Il professor Smith chiarisce, allora, come non si tratti di disperati sui barconi e che è una pia illusione tifare per un mondo senza frontiere perché «importare manodopera dall’Africa farà male a noi e a loro». Secondo il professore, questo esodo destabilizzerà le nostre società non solo da un punto di vista economico e sociale, ma anche culturale. S’illude, infatti, chi ritiene che l’integrazione sia un processo da poco, «si tratta di un processo lungo e il suo successo spesso è visibile solo dopo la seconda o terza generazione». E spesso neanche dopo, visto che si parla di culture inconciliabili. Non si può puntare su accoglienza e integrazione quando mancano i presupposti. D’altronde, come mai quando un ingegnere italiano va a lavorare negli Stati Uniti, o viceversa, questo problema non si pone proprio?
I media trasmettono facilmente cliché di disperati eroi scampati ai controlli alle frontiere. Eppure nessuno pone l’accento su un aspetto fondamentale: l’immigrazione irregolare inizia con un atto, e atteggiamento, disfattista che è la partenza di un africano che non crede nel futuro del suo Paese. Immaginare che sia giusto sradicare centinaia di migliaia di giovani africani per sopperire alla nostra forza lavoro, significa sposare l’idea che quelli che erano i Paesi in via di sviluppo possano essere cancellati. E come si può sostenere che non vi sia differenza tra immigrazione illegale e legale e che destabilizzare gli equilibri interni sia cosa da incentivare?
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