Lavorare nelle viscere della Terra
Cicerone sottolinea le difficoltà dei minatori, ma alla letteratura antica sfuggono disumanità e rischi di questo lavoro. Solo nella seconda metà dell’Ottocento anche i minatori divengono protagonisti di romanzi, quasi riemergendo dagli abissi, come Ciaùla, il personaggio di Pirandello che scopre la luna.
Nella piacevolissima operetta morale Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare uno gnomo, abitante del mondo sotterraneo, descrive l’attività umana che si svolge nelle miniere con queste parole: «[gli uomini] s’inabissavano le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la roba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero cavar fuori». Le immagini del genio poetico di Leopardi descrivono il fine delle attività sotterranee che da migliaia di anni gli uomini svolgono per estrarre dal suolo metalli, minerali preziosi o altri materiali come sale e carbone.
Negli ultimi secoli le tecniche di estrazione sono migliorate, ma il mestiere del minatore è ancora oggi uno dei più faticosi e pericolosi, esercitato in scarse condizioni di sicurezza per il rischio di crolli, esplosioni, malattie provocate dalle polveri, disturbi causati dai rumori. Le miniere esistono da migliaia di anni, ma la letteratura antica ha dedicato poco spazio a quel mondo sotterraneo in cui i lavoratori sono sfruttati, sottoposti a fatiche indicibili, in condizioni proibitive, con carenza di luce. I minatori non divengono mai protagonisti di opere letterarie.
Del resto, il realismo antico era ben differente dal nostro. Nella letteratura odierna qualsiasi personaggio, a qualsiasi classe sociale appartenga, può essere trattato seriamente e con dignità. «Ma questa è cosa del tutto impossibile nell’antichità […] (ove) vige la legge della tripartizione degli stili; tutta la bassa realtà, tutto quello che è quotidiano deve essere rappresentato solo comicamente, senza approfondimento problematico. In tal modo si pongono al realismo dei limiti molto ristretti» (Erich Auerbach, Mimesis). Per questo non potevano essere trattati seriamente né le professioni ordinarie (dall’artigianato al mercante) né tantomeno le scene d’ogni giorno, come la bottega, il campo, l’officina, figuriamoci la miniera. Il popolo e la sua vita sono esclusi dal racconto drammatico e serio della vita.
Alcuni scrittori come Cicerone, Virgilio, Plinio il Vecchio espongono, però, il loro giudizio sull’attività svolte in miniera. Nel De officiis il maggiore retore latino sottolinea le condizioni difficili dei minatori, per lo più schiavi alle dipendenze di liberti che dirigono l’attività: senz’ombra di dubbio, Cicerone privilegia all’estrazione il lavoro dei campi, anche se non gli sfugge l’importanza del ferro, del rame, dell’oro, dell’argento che si nascondono nelle viscere della terra. Nel III libro dell’Eneide Virgilio biasima la «sacra fames auri» che induce gli uomini a compiere violenze ed omicidi, come quello che ha portato Polimestore ad uccidere il nipote Polidoro. Nella Naturalis historia Plinio il Vecchio esalta in maniera acritica le capacità umane che sono approdate all’estrazione dal suolo di minerali e altri materiali, senza cogliere la disumanità delle condizioni lavorative e preoccuparsi delle numerose morti di cui peraltro riferisce nell’opera.
Solo nella seconda metà dell’Ottocento anche i minatori divengono protagonisti di romanzi, come Germinal di E. Zola, o di novelle, come quelle di Verga o di Pirandello. Nella novella che apre il verismo italiano quando fu pubblicato nel 1878 sulla rivista «Il Fanfulla» Rosso Malpelo non gode della fiducia neppure della madre, perde il padre in un incidente nella cava, è da tutti trattato come una bestia, tanto che non conosce altre modalità di rapporto che quelle improntate alla violenza. Lui, che non ha mai conosciuto l’amore, a sua volta non sa cosa significhi proteggere Ranocchio, un ragazzino che lavora in miniera, e lo sottopone a crudeltà. Malpelo si sacrifica per esplorare una galleria abbandonata. Prende gli arnesi del padre e non fa più ritorno.
Pirandello, figlio del proprietario di una solfatara, conosce bene il duro lavoro del minatore. Spesso descrive i carusi siciliani nel buio della miniera, talvolta a rifiatare nel verde delle colline, «offesi dalla luce dopo tante ore di tenebra laggiù», come scrive nella novella Il fumo. La collina appare loro come un paradiso terrestre, da cui proviene l’olio per le loro lucerne, che a mala pena rompe il buio della miniera. Da lì proviene il pane che li tiene in piedi nelle giornate di lavoro, «di là il vino, l’unico loro bene, la sera, il vino che dava loro il coraggio, la forza di durare a quella vita maledetta, se pur vita si poteva chiamare».
I carusi appaiono, infatti, come «morti affaccendati», che vagheggiano un’altra vita, invidiando i contadini: «I carusi, buttando giù il carico dalle spalle peste e scorticate, seduti su i sacchi, per rifiatare un po’ all’aria, tutti imbrattati dai cretosi acquitrini lungo le gallerie o lungo la lubrica scala a gradino rotto della «buca», grattandosi la testa e guardando a quella collina attraverso il vitreo fiato sulfureo che tremolava al sole vaporando dai «calcheroni» accesi o dai forni, pensavano alla vita di campagna, vita lieta per loro, senza rischi, senza gravi stenti là all’aperto, sotto il sole, e invidiavano i contadini».
I contadini pirandelliani vedono, invece, le solfatare come loro nemico, da lì proviene «il fumo devastatore» con «il lezzo asfissiante dello zolfo bruciato». I contadini guardano gli alberi, come per proteggerli, imprecano contro «quei pazzi» che si ostinano «a scavar fosse» per far fortuna e che, dopo aver devastato le campagne, si apprestano a distruggere anche le campagne. Anche per un minatore, che conduce una vita di privazioni, di fatiche estenuanti e invalidanti, in situazioni che possono facilmente portare alla morte, anche per lui è comunque possibile scoprire che nessuna fatica, nessun limite, nessuna circostanza definiscono e schiacciano la persona in maniera definitiva.
È sempre Pirandello che ce lo ricorda con la sua genialità in una delle più belle novelle: Ciàula scopre la Luna. Costretto a lavorare in miniera per tante e tante ore, fin da piccolo Ciàula aveva provato paura per il buio della notte. Non aveva paura del buio della miniera. «Aveva paura, invece, del bujo vano della notte», perché non lo conosceva. «La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciato dallo scoppio della mina, e zi’ Scarda stesso era stato preso in un occhio». Allora aveva rotto la sua «lumierina di terracotta» e quando era uscito nella buia notte senza la sua luce aveva provato tanta paura che si era messo a correre «come se qualcuno lo avesse inseguito». Lui, che era scarno e quasi ischeletrito, si vestiva con una camicia e un panciotto largo e lungo, gli unici indumenti che avesse. Lavorava spesso anche la notte, «laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso». Si muoveva «cieco e sicuro» nelle «viscere della montagna» come se fosse «dentro il suo alvo materno».
Un giorno, ritornato in superficie dopo l’estenuante fatica, restò sbalordito e scoprì la Luna. Lo sapeva che c’era, ma non l’aveva mai scoperta. Per lui è la rivelazione di una presenza che è più grande dell’uomo, che esiste a prescindere dalla consapevolezza che ciascuno di noi possa averne. Ora che è pieno di stupore per la scoperta della Luna, anche la fatica ha un sapore diverso.