Laurearsi in un paese che ha accettato il declino
In Italia i laureati sono pochi, difficilmente trovano lavoro e quando lo trovano sono retribuiti peggio che nel resto d'Europa. Perché le imprese sono sotto-capitalizzate. La spesa pubblica aumenta, ma gli investimenti pubblici e privati si riducono. I laureati emigrano. Lavoratori sempre meno qualificati immigrano.
L’11 settembre è stata pubblicata l’edizione 2017 del report di Alma Laurea sull’occupazione italiana. Un ritratto nel complesso a tinte fosche se confrontato con gli altri paesi dell’area OCSE. In Italia i laureati sono pochi, il 18% della popolazione contro il 37% della media OCSE (peggio di noi solo il Messico), e faticano a trovare lavoro. E, quando lo trovano, guadagnano meno sia dei laureati degli altri paesi sia dei laureati italiani che hanno deciso di emigrare in altri paesi.
Infatti, come riportato dal Sole 24 Ore del 17 febbraio 2017 in un articolo a firma di Enrico Marro, 1816 euro netti mensili del brillante laureato rimasto in Italia diventano 2135 nel resto dell’Europa meridionale, 2248 nell’Europa settentrionale (Scandinavia, Regno Unito e Irlanda) e 2472 nell’Europa occidentale continentale (Germania, Francia, Svizzera, Benelux). Ma salgono a 2843 euro nell’Europa dell’Est e a 3161 euro nei Paesi extra Ue sviluppati (Stati Uniti, Canada e Australia). Del resto, da sempre, in Italia, maggiori competenze si traducono solo in parte, in retribuzioni più alte, soprattutto nei primi anni dopo la laurea, se si pensa che nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, fatto 100 la retribuzione di un diplomato, la retribuzione di un laureato italiano è 114 contro una media europea di 137 (136 un francese e 149 un inglese). E questo se si para di retribuzioni lorde, perché dato l’alto cuneo fiscale italiano, se confrontiamo le retribuzioni nette, il paragone si fa ancor più impietoso.
Come mai questo? Le cause sono tante: il mercato del lavoro rigido e ingessato, le alte tasse sul lavoro, la crisi che ha picchiato duro dal 2008 e la tendenza degli studenti italiani a scegliere percorsi di studio più consoni alle loro preferenze (il 39% degli studenti ha conseguito una laurea di primo livello nel campo delle belle arti e delle discipline umanistiche, delle scienze sociali, del giornalismo e dell'informazione contro un media OCSE del 23%) e meno in linea con le richieste del mercato (il 14% ha una laurea di primo livello nel campo dell’economia, della gestione e della giurisprudenza contro il 23% della media OCSE). Ma ciò che più penalizza i laureati è la cronica mancanza di capitali da parte delle imprese nostrane. Infatti, più le imprese sono capitalizzate e più le competenze vengono valorizzate. E quel che vale per le imprese vale altrettanto per i paesi nel loro insieme. Come mai nei paesi poveri tutto costa enormemente di meno? Non certo perché sono più efficienti, anzi; ma perché i prezzi bassi incorporano salari bassi, a loro volta dovuti alla produttività del lavoro resa altrettanto bassa dalla mancanza di capitali, figlia di condizioni istituzionali che rendono di fatto impossibili gli investimenti pubblici (infrastrutture) e privati.
Ebbene, l’Italia, pur essendo ancora un paese avanzato, sta vivendo un processo simile. Da circa un decennio, infatti, ha visto diminuire sempre più gli investimenti pubblici e privati sul proprio territorio. Riguardo agli investimenti pubblici, l’incapacità dello stato italiano di porre un freno agli aumenti di spesa corrente (pensioni, stipendi pubblici e costi di funzionamento dello Stato) ha fatto sì che si tagliassero solo le spese per investimenti, fossero essi di carattere conservativo, come ci raccontano i sempre più frequenti crolli di ponti, straripamenti di fiumi e frane; o di carattere innovativo, come testimoniato dai ritardi relativi al posizionamento della fibra ottica e all’informatizzazione della Pubblica Amministrazione. I numeri a riguardo parano chiaro: dal 2008 al 2016 la spesa corrente è aumentata del 9,8%, con un + 2.8% su base annua per il primo trimestre 2017, mentre le spese per investimenti sono diminuite del 47% dal 2008 al 2016, con un -3,5% su base annua nel primo trimestre 2017.
E quel che è vero per la pubblica amministrazione, lo è altrettanto per gli investimenti privati, crollati di quasi il 30% dal 2008 al 2017. In particolare, va sottolineato lo scarso apporto delle imprese private ai già bassi investimenti in Ricerca e sviluppo (1,33% del pil rispetto al 2,03% dei paesi dell’area euro). Sul totale degli investimenti in R&S, che dovrebbero fare da volano alla crescita, nel 2015 le imprese private italiane concorrono per un 56%, contro il 66% della Gran Bretagna e il 64% della media dei 28 paesi dell’Unione europea tra cui spiccano il 65% della Francia e il 68% della Germania. Non c’è perciò da stupirsi da quanto emerso dallo studio condotto da J.P. Morgan pubblicato nel novembre 2016, da cui emerge che in Italia “l’over-skilling (competenze troppo alte rispetto a quelle richieste dal mercato) non solo è fortemente diffuso tra i laureati (19,6%), ma raggiunge una percentuale altissima (30%) tra i laureati in materie scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche, perché la struttura produttiva italiana, a causa della concentrazione nei settori tradizionali e della larga diffusione della piccola impresa, sembra offrire soprattutto impieghi poco qualificati, che non consentono l’utilizzo e il mantenimento delle competenze”. Prova ne sia che proprio nell’ultimo quarto di secolo, quello in cui la rivoluzione informatica ha dispiegato i propri effetti, l’Italia si sia posizionata costantemente in fondo alle classifiche della crescita sia in ambito europeo sia in ambito OCSE. E questo non è dovuto a problemi di carattere tecnologico, ma, per l’appunto, alla mancanza di capitali in un contesto politico-ideologico ostile all’impresa e al profitto che scoraggia gli investimenti e spinge chi è più preparato e intraprendente ad andarsene in paesi meglio attrezzati ad accoglierlo.
Del resto, è difficile aspettarsi qualcosa di diverso da un paese afflitto da aliquote fiscali confiscatorie, da un fisco feroce e da una burocrazia vessatoria e ottusa, divenuta ostile e moralista da mani pulite in poi. Il tutto in un clima di pressoché totale incertezza normativa, dovuta a leggi astruse e interpretabili a discrezione di ogni giudice, e di pressoché totale incertezza giudiziaria, dovuta a una lentezza processuale che incentiva comportamenti predatori e penalizza chi vorrebbe fare impresa in modo onesto e produttivo. Pertanto, accumulare capitale in queste condizioni è di fatto impossibile e i più penalizzati finiscono per essere proprio i laureati, che si trovano a lavorare in un paese refrattario all’innovazione nel quale è difficile mettere in pratica le proprie competenze, perché, con buona pace di Marx e dei marxisti di cui è piena l’Italia, il lavoro è tanto più ricompensato quanto più su di esso vengono investiti capitali.
E non paghi di “esportare” sempre più laureati, i nostri governanti si stanno dando da fare per importare dall’Africa immigrati sempre più poveri di competenze. Allo scambio virtuoso tra alta produttività e alti salari, si preferisce quello tra bassi salari di lavoratori immigrati e bassa produttività di un’industria sempre meno competitiva. Segno evidente che al rilancio dell’industria, le nostre classi dirigenti preferiscono una più comoda gestione del declino. Più comoda, naturalmente, fino a che le (tante) risorse accumulate dagli italiani nel corso dei decenni non verranno del tutto dilapidate. E forse allora, non potendo più fare altro, non resterà che rimboccarci davvero le maniche.