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MOSTRE

L'arte della "Magna Europa" al servizio del Vangelo

A Madrid una mostra rievoca una idea di missione originale e bella. Quella dell'"Hispanidad" nel Nuovo Mondo.

Cultura 24_12_2010
Marten de Vos (1532-1603), San Michele scaccia il Demonio, cattedrale di Cuautitlàn, Messico

 

Con i tempi di crisi economica che corrono, per le vacanze invernali molti rinunciano alle mete esotiche, lasciandole ai discutibili spettacoli dei cinepanettoni. Tanti italiani scelgono la più vicina Spagna. Alcuni si fanno anche riconoscere, come quegli studenti in viaggio – si fa per dire – di cultura che un paio di domeniche fa hanno cercato di bloccare a Madrid l’ingresso al Museo del Prado, innalzando striscioni contro la Gelmini e finendo per scoprire che la polizia spagnola di Zapatero è meno tollerante della nostra.
Un’occasione perduta. Se, anziché rimanere fuori, quegli studenti fossero entrati al Prado vi avrebbero scoperto una ricca offerta di mostre, e una avrebbe potuto cambiare qualche loro idea sulla storia. Dell’industria delle mostre – spesso un semplice modo per alleggerire i portafogli dei turisti – si è detto, in tante sedi, tutto il male possibile. Ma ci sono eccezioni.

Pintura de los Reinos, "Pittura dei regni", è una mostra in due tappe, una al Prado e una al Palazzo Reale di Madrid, in corso fino al 30 gennaio 2011. I regni di cui si parla sono quelli che dal Cinquecento al Settecento hanno costituito l’immensa monarchia spagnola, il famoso impero su cui non tramontava mai il sole, che andava dalla California e dal Perù fino alle Filippine, passando per le Fiandre e per una parte rilevante dell’Italia. Come annunciano i primi pannelli, la mostra ha un obiettivo polemico: i manuali di storia dell’arte, ancora debitori ai fondatori di questa disciplina nel secolo XIX di un accostamento che deve molto al clima nazionalista di quell’epoca e distingue una pittura spagnola, una italiana, una fiamminga e così via. Anche la storia dell’arte iberoamericana è stata creata da nazionalisti i quali parlano di pittori argentini, messicani o peruviani.

Ma tutto questo – sostiene la mostra – non ha nessun senso prima del XIX secolo. Si prenda l’esempio di Bernardo Bitti (1548-1610), presentato come il padre fondatore della pittura "peruviana". Bitti nasce a Camerino, nelle Marche, ed entra come fratello laico tra i gesuiti, che – riconosciuto il suo grande talento – lo inviano in Sudamerica a «evangelizzare per mezzo dell’arte». Se il centro della sua attività è il Perù, le sue opere e i suoi discepoli si trovano in tutto lo spazio iberoamericano, dal Messico all’Argentina. Non si tratta dunque di una somma di scuole pittoriche nazionali, ma di un unico grande movimento artistico: una pittura cattolica di lingua spagnola, che conosce accenti e dialetti distinti ma è fondamentalmente un unico idioma.

La mostra di Madrid spiega chiaramente che, se non mancano pittori che si dedicano al ritratto e (molto meno) all’allegoria e al paesaggio, lo scopo di questa cultura pittorica «dei regni» è quello assegnato a Bitti dai suoi superiori gesuiti: evangelizzare. Dalla Bolivia alle Filippine, l’arte è messa al servizio della missione e del Vangelo. Questa immensa opera educativa deve certamente moltissimo alla Compagnia di Gesù, grande patrona delle arti nei regni ispanici. Ma prima dei gesuiti avevano operato i Francescani, i quali già nel Cinquecento non si limitano a esportare frati pittori ma aprono anche scuole dove le popolazioni native imparano le tecniche artistiche e nello stesso tempo la dottrina cattolica. Queste scuole producono pittori indigeni di notevole talento.

Vi è qui – e la mostra non lo nasconde – un elemento di polemica con il mondo protestante, che specie nelle Americhe sia diffonde idee puritane ostili o almeno tiepide nei confronti dell’arte, sia adotta un atteggiamento diverso nei confronti delle popolazioni indigene. Così, nelle regioni degli attuali Stati Uniti e Canada dove i protestanti sono in maggioranza non nasce nulla di simile alla straordinaria fioritura artistica dell’Iberoamerica e delle Filippine ispaniche, né certamente le popolazioni native sono coinvolte nella creazione di un’arte religiosa cristiana.

Un quadro tardo e anonimo, degli inizi del Settecento, dipinto in Perù e diventato famoso, mostra ai visitatori lo spirito di questo movimento artistico. In tre scene l’autore raffigura un autentico albero genealogico e mostra come discendenti dei sovrani inca del Perù, convertiti al cattolicesimo, abbiano sposato nipoti sia di sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) sia del suo successore e terzo preposito generale dei Gesuiti san Francesco Borgia (1510-1572). Alcuni autori – i curatori della mostra non lo nascondono – pensano che il celebre dipinto contenga errori genealogici: ma è lo spirito che conta. Quanto di meglio poteva offrire una cultura che pure aveva conosciuto anche aspetti sanguinari e inaccettabili come i sacrifici umani, purificato dal severo vaglio del Vangelo, si sposa anche nel senso letterale del termine con la cultura ispanica, cattolica e gesuita.

Ma la mostra di Madrid non si limita a sottolineare l’unità che lega tra loro le pitture dei regni ispanici. Illustra anche le diversità. Modelli iniziali sono declinati in forme diverse che tengono conto dei colori e dei paesaggi dei diversi contesti locali. Di particolare pregio è lo studio delle variazioni in una delle figure preferite di questa pittura, quella di san Michele Arcangelo che schiaccia il Demonio. [nella foto] Da una raffigurazione considerata esemplare del pittore fiammingo Marten de Vos (1532-1603), che si trova nella cattedrale di Cuautitlàn in Messico, nascono infinite variazioni dove si scorgono i paesaggi della California, del Perù, delle Filippine. San Michele che sconfigge il demonio è figura della Chiesa Cattolica che sconfigge i suoi nemici e anche della "Hispanidad" cattolica che prevale sugli avversari protestanti. Le stesse variazioni ricorrono nel tema dell’Immacolata, un soggetto preferito dai pittori ispanici dal manierismo al barocco già secoli prima della proclamazione del dogma. Ma le stesse divisioni tradizionali – post-Rinascimento, manierismo, caravaggismo, barocco – in questo contesto devono essere rivisitate, parlando piuttosto di una "scuola romana" o di una "pittura cattolica", il cui scopo è la proclamazione delle verità della fede per mezzo delle immagini.

Certamente non si tratta di sostituire alla "leggenda nera"sui regni ispanici una "leggenda rosa". Non tutto era grande arte, missione, splendore di chiese riccamente ornate. C’erano anche miserie e maltrattamenti, profittatori e amministratori disonesti. Ma dalla mostra rifulge lo spirito migliore dell’evangelizzazione dei regni conquistati dalla Spagna: gli indigeni non sono solo convertiti, ma spinti – anche insegnando loro le arti e inserendo i più dotati nelle botteghe di pittori famosi – a diventare attori della loro stessa conversione. I matrimoni misti, come quelli con i discendenti di sant’Ignazio e di san Francesco Borgia, simboleggiano in modo eloquente la nascita di una civiltà che non è una semplice replica o imitazione di quella europea, ma fonde i localismi con l’eredità spagnola nel quadro dell’unità assicurata e vagliata dalla fede.

Nel 2006 è uscito un volume di grande pregio curato da Giovanni Cantoni e Francesco Pappalardo per le edizioni D’Ettoris di Crotone: Magna Europa. L’Europa fuori dall’Europa, un testo monumentale che mostra come gli europei abbiano creato fuori del loro continente di origine una "Grande Europa" che va dalle Americhe all’Australia e che rimane incomprensibile senza la religione. La Hispanidad è solo una componente – essenziale, ma non unica – della Magna Europa. La mostra di Madrid ci aiuta a ripensare questi concetti, e a scoprire un’arte grande perché concepita non per intrattenere o divertire, ma per insegnare il Vangelo e muovere i cuori alla preghiera.