NORDAFRICA
L'arcivescovo di Tunisi scommette sul futuro
Mons. Lahham: «La democrazia richiede un grande cambiamento cultural, almeno due generazioni».
- Tunisia al voto, i rischi, di V. Colombo
Attualità
24_10_2011
Mai l'espressione piccolo gregge fu appropriata come per la Chiesa di Tunisia: 22 mila battezzati appena, quasi tutti stranieri o di origine straniera, su una popolazione di 10 milioni di abitanti musulmani per il 98 per cento. Una grande eredità di martiri e teologi alle spalle (Felicita e Perpetua, Cipriano, Monica, Agostino, ecc.) e un futuro difficile da valutare di fronte a sé: la piccola Chiesa cattolica di Tunisia, guidata dal suo unico vescovo mons. Maroun Lahham, palestinese arcivescovo di Tunisi, ha espresso approvazione per la Rivoluzione dei Gelsomini, ma è anche consapevole dei rischi e delle difficoltà della transizione politica, che conosce una tappa cruciale con le elezioni per l'Assemblea costituente che si sono concluse ieri, 23 ottobre. La Tunisia è stata il primo paese arabo a liberarsi con le proprie forze del regime poliziesco e personalistico che la reggeva dal 1987 (quello di Ben Ali, che era stato preceduto da un sistema a partito unico di fatto, non meno autoritario perché retto dal padre della patria, Habib Bourguiba dal 1956) e oggi è il primo che porta a termine elezioni veramente libere e credibili. Sull'attualità politica mons. Lahham ci ha rilasciato l'intervista che segue, nella quale si esprime con la necessaria prudenza ma anche con molta chiarezza.
Eccellenza, che valutazione dà Lei della rivoluzione tunisina e dei nove mesi di transizione trascorsi dalle dimissioni di Ben Ali il 14 gennaio?
Considerato quello che sta accadendo in altri paesi arabi, qui siamo stati non solo i primi, ma anche i più bravi, nel senso che qui c'è stata meno violenza. Certo, abbiamo avuto qualche settimana di ansia, di preoccupazione, ma sono passati nove mesi e ora il paese va abbastanza bene. Abbiamo visto manifestazioni e scioperi, vocaboli fino allora sconosciuti nel vocabolario tunisino. Non si era mai sentito parlare di scioperi e di manifestazioni: il sindacato aveva la funzione di richiamare i diritti dei lavoratori, ma era totalmente in sintonia con il regime. Non c’era alcuna opposizione: i partiti che la esprimevano erano in realtà creature del governo. I tunisini si sono ritrovati all’improvviso capaci di parlare, di dire quello che pensano e di scioperare. Una vera rivoluzione, non c'è dubbio.
Nel suo editoriale sul giornale diocesano Lei ha scritto che la mentalità democratica avrà bisogno di tanto tempo per radicarsi: due generazioni almeno. Non è poco. Quali sono gli ostacoli che rendono necessario un tempo così lungo?
Non è questione di ostacoli, è che si tratta di una prima nel mondo arabo musulmano: non c’è mai stato un paese arabo musulmano democratico. La mentalità democratica è una cultura, e una cultura non è come cambiare una camicia. Per fare una democrazia servono non solo leggi, ma senso civico, rispetto per l’altro diverso da noi, la legittimità di una società pluralistica, l'accettazione della libertà di parola, di pensiero, di arte. Non basta impartire un ordine perché la democrazia si realizzi. Io penso che il popolo tunisino, essendo un popolo colto, sarà capace di questa evoluzione. Anche per orgoglio nazionale, perché si sente osservato da tutto il mondo e vorrebbe interpretare il ruolo di laboratorio democratico per tutto il mondo arabo. Dunque io sono ottimista però con una certa dose di discernimento, per non cadere nell’ingenuità.
Non s’è notata molta vivacità nella campagna elettorale. Molte persone non si sono iscritte per andare a votare. Come mai? Eppure sono le prime elezioni libere da sempre!
Proprio perché è la prima volta: non è nella cultura, non è nelle abitudini. Anche prima tu potevi votare, ma anche se mettevi la carta rossa, usciva quella verde, cioè il voto per il presidente in carica. Poi c'è il fatto della delusione dei giovani, che sono stati i protagonisti della rivoluzione e che si aspettavano tutto e subito. Esigevano cambiamenti epocali già in questi nove mesi di transizione, ma non era possibile: il paese è complicato e le istituzioni sono rimaste nelle mani del partito unico per troppo tempo. Infine c'è il problema della proliferazione dei partiti: ne sono stati legalizzati circa 120, e questo ha reso la situazione incomprensibile. I tunisini sono confusi: leggono i programmi, e scoprono che sono tutti uguali: tutti promettono 200 mila nuovi posti di lavoro e altre cose a cui nessuno crede. Ieri il mio autista diceva: “mi sono iscritto a votare, ma non capisco cosa dicono, e non mi fido”. Bisogna però dire che dopo le elezioni questa Porta Portese dei partiti finirà, e si distingueranno due binari: un binario islamico, rappresentato da Ennhadha, e un binario rappresentato dai partiti democratici: la direzione che la Tunisia prenderà sarà decisa nella sfida fra queste due aree politiche.
Considerato quello che sta accadendo in altri paesi arabi, qui siamo stati non solo i primi, ma anche i più bravi, nel senso che qui c'è stata meno violenza. Certo, abbiamo avuto qualche settimana di ansia, di preoccupazione, ma sono passati nove mesi e ora il paese va abbastanza bene. Abbiamo visto manifestazioni e scioperi, vocaboli fino allora sconosciuti nel vocabolario tunisino. Non si era mai sentito parlare di scioperi e di manifestazioni: il sindacato aveva la funzione di richiamare i diritti dei lavoratori, ma era totalmente in sintonia con il regime. Non c’era alcuna opposizione: i partiti che la esprimevano erano in realtà creature del governo. I tunisini si sono ritrovati all’improvviso capaci di parlare, di dire quello che pensano e di scioperare. Una vera rivoluzione, non c'è dubbio.
Nel suo editoriale sul giornale diocesano Lei ha scritto che la mentalità democratica avrà bisogno di tanto tempo per radicarsi: due generazioni almeno. Non è poco. Quali sono gli ostacoli che rendono necessario un tempo così lungo?
Non è questione di ostacoli, è che si tratta di una prima nel mondo arabo musulmano: non c’è mai stato un paese arabo musulmano democratico. La mentalità democratica è una cultura, e una cultura non è come cambiare una camicia. Per fare una democrazia servono non solo leggi, ma senso civico, rispetto per l’altro diverso da noi, la legittimità di una società pluralistica, l'accettazione della libertà di parola, di pensiero, di arte. Non basta impartire un ordine perché la democrazia si realizzi. Io penso che il popolo tunisino, essendo un popolo colto, sarà capace di questa evoluzione. Anche per orgoglio nazionale, perché si sente osservato da tutto il mondo e vorrebbe interpretare il ruolo di laboratorio democratico per tutto il mondo arabo. Dunque io sono ottimista però con una certa dose di discernimento, per non cadere nell’ingenuità.
Non s’è notata molta vivacità nella campagna elettorale. Molte persone non si sono iscritte per andare a votare. Come mai? Eppure sono le prime elezioni libere da sempre!
Proprio perché è la prima volta: non è nella cultura, non è nelle abitudini. Anche prima tu potevi votare, ma anche se mettevi la carta rossa, usciva quella verde, cioè il voto per il presidente in carica. Poi c'è il fatto della delusione dei giovani, che sono stati i protagonisti della rivoluzione e che si aspettavano tutto e subito. Esigevano cambiamenti epocali già in questi nove mesi di transizione, ma non era possibile: il paese è complicato e le istituzioni sono rimaste nelle mani del partito unico per troppo tempo. Infine c'è il problema della proliferazione dei partiti: ne sono stati legalizzati circa 120, e questo ha reso la situazione incomprensibile. I tunisini sono confusi: leggono i programmi, e scoprono che sono tutti uguali: tutti promettono 200 mila nuovi posti di lavoro e altre cose a cui nessuno crede. Ieri il mio autista diceva: “mi sono iscritto a votare, ma non capisco cosa dicono, e non mi fido”. Bisogna però dire che dopo le elezioni questa Porta Portese dei partiti finirà, e si distingueranno due binari: un binario islamico, rappresentato da Ennhadha, e un binario rappresentato dai partiti democratici: la direzione che la Tunisia prenderà sarà decisa nella sfida fra queste due aree politiche.
Il primo ministro di transizione Beji Caid Essebsi ha detto in un'intervista al New York Times che è più difficile difendere la libertà dai suoi amici che dai suoi nemici.
Forse faceva allusione agli islamisti. Comunque è un fatto psicologico, è come con le galline tenute troppo tempo chiuse nel pollaio: quando si apre la porta scoppia una gran confusione, tutte corrono dappertutto. Il popolo tunisino, ma soprattutto i giovani, si aspettavano tanto, forse troppo: è questo che il primo ministro probabilmente voleva dire. Però alla fine la gente capirà che deve accettare dei compromessi.
Cosa cambia per la Chiesa col nuovo dato sociale e politico? Quali opportunità o quali pericoli ci saranno per la Chiesa?
Finora non si può dire. Stiamo vivendo come prima: abbiamo libertà di azione e non abbiamo avuto problemi. Per il futuro, si vedrà. Ho scritto una lettera pastorale con una lettura teologico-pastorale degli avvenimenti. La risposta alla sua domanda è nell'ultima parte, dove rispondo all'interrogativo “Cosa ci attendiamo dalla Tunisia?”. In linea di principio niente, perché ciò che la Chiesa cerca di essere e di dare è sempre nella totale gratuità. Nei nuovi tempi che vengono siamo chiamati ad allargare lo spazio della nostra tenda e a lavorare generosamente alla fraternità, testimoniando il Dio Amore. Non sognare di annunciare Gesù nei luoghi pubblici, perché Gesù ci ha insegnato a rispettare la libertà dell'altro, ma nella verità poter essere noi stessi nel dire, nel fare, nella preghiera pubblica e privata.
Lei ha scritto che nella nuova situazione politica la Chiesa dovrà essere come Gesù coi discepoli di Emmaus: cosa intende dire?
Gesù ha accompagnato i discepoli di Emmaus spiegando loro il cammino che stavano facendo. Siccome la maggior parte dei nostri fedeli sono occidentali, e dunque hanno esperienza della mentalità democratica e del senso civico, possiamo fare da ponte. Possiamo consigliare e accompagnare il popolo tunisino nel suo percorso democratico. Non con un paternalismo condiscendente, ma con un amore e una fedeltà per questo paese che ci accoglie e ci ama, e che noi amiamo.
Sempre nella lettera pastorale Lei dice che un paese ha bisogno di basarsi su valori religiosi. Cosa vuol dire questo in un paese come la Tunisia, dove c’è una discussione circa la religione e la politica, circa l’islam politico ?
Ho detto la religione, non la pratica islamica. Anche da voi in Europa i valori che adesso sono considerati come valori umani, civici, sono valori di origine religiosa: se non ci fosse un cristianesimo vecchio di duemila anni, non sareste arrivati a questi concetti di giustizia, libertà, solidarietà, condivisione. Anche qui valori come l’ospitalità, la solidarietà, la giustizia e la pace hanno un fondamento radicato nella fede religiosa.
Anche qui i valori umani hanno un fondamento religioso?
Molto più che in Europa, perché Dio qui è sempre presente nella vita sociale. Un arabo, che sia cristiano o musulmano, cita il nome di Dio 200 volte durante la giornata. Non c’è un laicismo alla francese; e qui in Tunisia laico non vuol dire antireligioso, oggi.
Si dice che la Tunisia sia il paese più laicizzato, più secolarizzato fra quelli arabi.
Ma rimane un paese arabo musulmano. Non è fanatico, non è chiuso agli altri, ma è sensibilissimo alle questioni religiose.
Che cosa la preoccupa di più e che cosa le dà coraggio di fronte a questo tempo che viene e di fronte a questa transizione che avrà ancora passaggi importanti?
Ho più motivi di essere ottimista che pessimista. Non mi preoccupa niente di grave. Anche perché ho vissuto in Terra Santa delle situazioni molto più complicate. Per temperamento sono ottimista e per vocazione il vescovo deve sempre dare il tono alla sua diocesi, e non può essere un tono basso. Quello che mi incoraggia è che forse avremo più spazio, più possibilità per esprimere la nostra fede e i nostri princìpi. Forse avremo più cattolici se la Tunisia diventa pienamente democratica: verranno altri cristiani a vivere, lavorare, fare turismo qui. Nella lettera ho citato Isaia: “allargare lo spazio della nostra tenda”. Ecco la mia speranza.
Forse faceva allusione agli islamisti. Comunque è un fatto psicologico, è come con le galline tenute troppo tempo chiuse nel pollaio: quando si apre la porta scoppia una gran confusione, tutte corrono dappertutto. Il popolo tunisino, ma soprattutto i giovani, si aspettavano tanto, forse troppo: è questo che il primo ministro probabilmente voleva dire. Però alla fine la gente capirà che deve accettare dei compromessi.
Cosa cambia per la Chiesa col nuovo dato sociale e politico? Quali opportunità o quali pericoli ci saranno per la Chiesa?
Finora non si può dire. Stiamo vivendo come prima: abbiamo libertà di azione e non abbiamo avuto problemi. Per il futuro, si vedrà. Ho scritto una lettera pastorale con una lettura teologico-pastorale degli avvenimenti. La risposta alla sua domanda è nell'ultima parte, dove rispondo all'interrogativo “Cosa ci attendiamo dalla Tunisia?”. In linea di principio niente, perché ciò che la Chiesa cerca di essere e di dare è sempre nella totale gratuità. Nei nuovi tempi che vengono siamo chiamati ad allargare lo spazio della nostra tenda e a lavorare generosamente alla fraternità, testimoniando il Dio Amore. Non sognare di annunciare Gesù nei luoghi pubblici, perché Gesù ci ha insegnato a rispettare la libertà dell'altro, ma nella verità poter essere noi stessi nel dire, nel fare, nella preghiera pubblica e privata.
Lei ha scritto che nella nuova situazione politica la Chiesa dovrà essere come Gesù coi discepoli di Emmaus: cosa intende dire?
Gesù ha accompagnato i discepoli di Emmaus spiegando loro il cammino che stavano facendo. Siccome la maggior parte dei nostri fedeli sono occidentali, e dunque hanno esperienza della mentalità democratica e del senso civico, possiamo fare da ponte. Possiamo consigliare e accompagnare il popolo tunisino nel suo percorso democratico. Non con un paternalismo condiscendente, ma con un amore e una fedeltà per questo paese che ci accoglie e ci ama, e che noi amiamo.
Sempre nella lettera pastorale Lei dice che un paese ha bisogno di basarsi su valori religiosi. Cosa vuol dire questo in un paese come la Tunisia, dove c’è una discussione circa la religione e la politica, circa l’islam politico ?
Ho detto la religione, non la pratica islamica. Anche da voi in Europa i valori che adesso sono considerati come valori umani, civici, sono valori di origine religiosa: se non ci fosse un cristianesimo vecchio di duemila anni, non sareste arrivati a questi concetti di giustizia, libertà, solidarietà, condivisione. Anche qui valori come l’ospitalità, la solidarietà, la giustizia e la pace hanno un fondamento radicato nella fede religiosa.
Anche qui i valori umani hanno un fondamento religioso?
Molto più che in Europa, perché Dio qui è sempre presente nella vita sociale. Un arabo, che sia cristiano o musulmano, cita il nome di Dio 200 volte durante la giornata. Non c’è un laicismo alla francese; e qui in Tunisia laico non vuol dire antireligioso, oggi.
Si dice che la Tunisia sia il paese più laicizzato, più secolarizzato fra quelli arabi.
Ma rimane un paese arabo musulmano. Non è fanatico, non è chiuso agli altri, ma è sensibilissimo alle questioni religiose.
Che cosa la preoccupa di più e che cosa le dà coraggio di fronte a questo tempo che viene e di fronte a questa transizione che avrà ancora passaggi importanti?
Ho più motivi di essere ottimista che pessimista. Non mi preoccupa niente di grave. Anche perché ho vissuto in Terra Santa delle situazioni molto più complicate. Per temperamento sono ottimista e per vocazione il vescovo deve sempre dare il tono alla sua diocesi, e non può essere un tono basso. Quello che mi incoraggia è che forse avremo più spazio, più possibilità per esprimere la nostra fede e i nostri princìpi. Forse avremo più cattolici se la Tunisia diventa pienamente democratica: verranno altri cristiani a vivere, lavorare, fare turismo qui. Nella lettera ho citato Isaia: “allargare lo spazio della nostra tenda”. Ecco la mia speranza.