La via lombardo-veneta all'autonomia
Niente a che vedere con la secessione, nessun parallelismo con la Catalogna. I referendum consultivi di domenica 22 ottobre in Lombardia e Veneto sono per l’autonomia e si muovono nel solco della fedeltà al dettato costituzionale.
Niente a che vedere con la secessione, nessun parallelismo con la Catalogna. I referendum consultivi di domenica 22 ottobre in Lombardia e Veneto sono per l’autonomia e si muovono nel solco della fedeltà al dettato costituzionale. Si tratta, quindi, di consultazioni legali, realizzate d'accordo con lo Stato, e allo scopo di chiedere maggiori poteri in un modo previsto dall’art.116 della Costituzione.
Nel referendum catalano, considerato illegale dalla Spagna, ai cittadini è stato chiesto se volessero l’indipendenza dalla Spagna. Ai cittadini lombardi e veneti, invece, verrà chiesto se vogliono che la giunta regionale invochi il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione e faccia richiesta allo Stato per ottenere maggiore autonomia secondo un modello di “regionalismo differenziato”, istituto costituzionalizzato con la riforma del Titolo V della Costituzione, entrata in vigore nell’ottobre 2001. Si tratta di una fattispecie ben precisa che riguarda le regioni a statuto ordinario virtuose e con i conti in ordine, che possono rivendicare nuovi e più ampi margini di autonomia politica e amministrativa.
L’esito delle urne lombarde e venete non è vincolante e l’ultima parola spetta allo Stato, ma appare evidente che una massiccia affluenza alle urne da parte degli aventi diritto sarebbe un segnale forte da lanciare a Roma per stimolare una seria presa di coscienza delle ragioni dell’autonomia di quelle due regioni del nord. Peraltro in Veneto è previsto il quorum del 50% più uno, mentre in Lombardia no. In Veneto si voterà con le consuete schede cartacee, mentre negli oltre ottomila seggi lombardi il referendum si svolgerà con il voto elettronico, e sarà la prima volta in Italia.
L’Emilia Romagna ha polemizzato con le altre due regioni definendo inutili quei referendum e annunciando di aver già attivato la procedura per chiedere allo Stato più ampi margini di autonomia. Tuttavia, i precedenti parlano chiaro. Dal 2001 a oggi diverse regioni, dal Piemonte alla Lombardia, dal Veneto alla Toscana, hanno provato a intavolare una trattativa con lo Stato centrale per ottenere maggiore autonomia, ma non hanno portato a casa nulla, se non qualche generica promessa caduta poi nel vuoto. Il percorso del regionalismo differenziato non si è dunque mai reso concretamente operativo. Probabilmente un massiccio voto dei cittadini lombardi e veneti in favore dell’autonomia potrebbe dare ai vertici di quelle due regioni maggiore forza contrattuale nelle trattative con lo Stato centrale.
D’altronde, la dimensione economico-produttiva e la capacità fiscale della Lombardia e del Veneto giustificano in pieno tali istanze autonomiste. In particolare la Lombardia, con 10 milioni di abitanti, copre circa un quarto del Pil del Paese ed è uno dei quattro motori per l’Europa, insieme a Catalogna, Baden-Wurttemberg e Rhone-Alpes.
Secondo una ricerca dell’Ufficio studi Confcommercio, se tutte le regioni adottassero i criteri di spesa della Regione Lombardia, ci sarebbe un risparmio nella spesa pubblica di circa 74 miliardi di euro. La Lombardia è la regione che ha meno dipendenti pubblici, circa 41 ogni mille abitanti, meglio della Germania, della Spagna e del Regno Unito. Il costo del lavoro dei dipendenti pubblici lombardi è di gran lunga più basso rispetto al resto del Paese: 18,75 euro (al secondo posto il Veneto con 29,38), contro un costo medio di circa 39 euro per le regioni a statuto ordinario. Infine, la Lombardia è la regione che vanta la spesa statale per abitante più bassa in assoluto (2.447 euro, contro una media nazionale di 3.658 euro).
Sono cifre che legittimano appieno il disegno che sta dietro il referendum del 22 ottobre, cioè quello di introdurre meccanismi di responsabilizzazione, trasparenza e partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, a beneficio esclusivo del popolo lombardo e di quello veneto che, grazie all’autonomia fiscale, si vedrebbero sgravati di ampie porzioni di fiscalità regionale, dal bollo auto all’aliquota Irpef, e godrebbero di uno spettro maggiore di servizi.
Dal punto di vista strettamente politico, il fronte del “si” ai quesiti referendari in Veneto e Lombardia è molto più ampio dei confini del centrodestra e abbraccia anche il Movimento Cinque Stelle, buona parte del Pd (moltissimi sindaci dem della Lombardia, ad esempio) e intere categorie produttive, a prescindere dal colore politico. Probabilmente una schiacciante vittoria dei “si”, oltre che dare forza alle ragioni di Veneto e Lombardia nell’interlocuzione con Roma sulla redistribuzione di poteri e la ridefinizione dei confini dell’autonomia regionale, creerebbe qualche problema a Matteo Salvini, che da tempo punta a trasformare la Lega in una forza politica nazionale sul modello del Front National, a differenza dei governatori Maroni e Zaia, che incentrano la loro azione politica sulla valorizzazione delle specificità territoriali delle regioni del nord. A urne chiuse si capirà quale delle due anime della Lega potrà cantare vittoria.