La Via della Seta passa dalla Pirelli
La Pirelli viene comprata da una compagnia pubblica cinese, la ChemChina. Di fatto: è stata comprata da Pechino. Per l'Italia significa aver perso la proprietà sull'ultima delle nostre grandi industrie. Per la Cina è invece un tassello in più nel suo faraonico progetto di infrastrutture, che mira a ricostruire la Via della Seta.
Il nostro Paese perde il controllo di un altro pezzo, anzi dell’ultimo pezzo importante della sua grande industria, e in sostanza ancora una volta nessuno fa una piega. Su nessuno dei quotidiani di ieri era titolo principale della prima pagina la notizia che la Pirelli, l’unico grande gruppo industriale manifatturiero che ancora ci restava, diventerà di proprietà cinese.
Analizzando il testo della relativa nota di cronaca su tutti i quotidiani, a cominciare dai più importanti, si faceva in fretta a capire che si trattava di semplici parafrasi del comunicato ufficiale diffuso dall’azienda. Di suo qualcuno ci aggiungeva il compiacimento per l’impennata del valore in borsa dei titoli Pirelli alla notizia che saranno presto oggetto di un’offerta pubblica di acquisto, Opa. “Scopo dell’Opa”, spiegava poi pudicamente La Stampa, “è togliere, dopo un secolo, Pirelli dalla Borsa”. In altre parole la China National Chemical Corporation (ChemChina), gigantesco gruppo statale cinese, non solo si fa un boccone della Pirelli, ma se la compra tutta togliendola dal mercato borsistico così da sottrarne la gestione a qualsiasi obbligo di trasparenza e di verifica esterna; e tutti noi dovremmo lanciare grida di gioia perché in grazia di ciò i proprietari di titoli della Pirelli ci guadagneranno un po’ (purché vendano subito).
Si veniva quindi invitati a gioire alla notizia che Marco Tronchetti Provera resterà amministratore delegato assumendo inoltre la carica di vicepresidente esecutivo. Per inciso qualcuno faceva sapere che il socio di maggioranza cinese nominerà il presidente “con poteri di legale rappresentante della società”. Ovvero a Tronchetti Provera viene riservata la parte del nobile destriero ma quella del cavaliere è in capo a ChemChina.
Quando arrivano notizie come questa ormai non c’è comunque più nulla da fare semplicemente perché tutto è già stato fatto. Almeno però sarebbe simpatico non fare finta di non capire. E soprattutto l’accaduto dovrebbe dare adito a un dibattito nazionale. Strozzata la Olivetti quando stava per assumere il ruolo che adesso hanno la Samsung e altri giganti dell’elettronica, distrutta l’industria chimica e azzoppata l’industria siderurgica, passata in mani americane o svedesi l’industria degli elettrodomestici, divenuta la Fiat nient’altro che la filiale italiana di una multinazionale Usa, disfatte da “Tangentopoli” le aziende che negli anni ’60-’70 dominavano il mercato mondiale delle grandi opere edili, strette d’assedio l’Eni e Finmeccanica, e divenuta ora cinese la Pirelli, che cosa resta in quanto a strutture fondamentali di quell’economia industriale che nel 1975 valse all’Italia l’ingresso nel Gruppo delle sei maggiori economie avanzate del mondo, noto come G7 da quando l’anno dopo vi si aggiunse il Canada? L’elenco di quanto abbiamo perduto lascia senza fiato, ma non c’è nemmeno la speranza di poter cominciare la risalita dal fondo del pozzo finché non si comincia a cercare di capire come e perché tutto ciò sia accaduto. Invece, niente.
Il caso dell’acquisto della Pirelli da parte dello Stato cinese (perché è di questo che si tratta, seppur tramite un gruppo industriale controllato) è tanto più serio se si considera in quale progetto complessivo di politica estera esso vada a collocarsi. Avendo trovato in Europa un partner molto importante nella Germania, la Cina punta a riaprire gli storici itinerari transcontinentali terrestri euro-asiatici noti come Via della Seta, la cui chiusura nel secolo XVI segnò l’inizio dell’egemonia planetaria delle potenze marittime nordatlantiche. Tale progetto rientra in un progetto ancor più grande volto a combinare la Nuova Via della Seta anche con itinerari in parte marittimi da porti cinesi (Shangai e Hong Kong in primo luogo) al Mediterraneo studiati in modo di aggirare l’India in tutta la misura del possibile.
In tale prospettiva la Cina sta fra l’altro offrendo al Pakistan il progetto e il finanziamento di un asse viario destinato a collegare Karachi e Gwadar, i suoi porti sull’Oceano Indiano, con Kashgar, capitale della provincia cinese del Xinjiang e importante nodo della Nuova Via della Seta (come pure lo fu di quella antica): un’impresa gigantesca che implica il primo attraversamento autostradale e ferroviario dell’Himalaya. Poi resta da vedere se si passerà dai progetti ai fatti, ma la volontà politica è chiara. Il progetto implica un inevitabile ridimensionamento del ruolo relativo delle Americhe, il che con non è senza buone ragioni. I cinesi però vanno oltre, ignorandone totalmente pure i legittimi interessi.
Un tale squilibrio, cui Washington sta già reagendo, porta con sé seri rischi per la pace internazionale. Al di là di ogni ulteriore considerazione merita però di venire considerata l’ampiezza della visione di politica estera in cui il progetto cinese si colloca: un’ampiezza con la quale non ci si può efficacemente confrontare se non a partire da qualcosa di altrettanto ampio, che invece a Bruxelles manca completamente. Il nostro Paese avrebbe poi buoni motivi per prendere specifiche iniziative al riguardo tanto più che, come già avevamo osservato, esso taglia fuori non solo l’India ma anche l’Italia. Avrebbe fatto bene l’Europa mediterranea a impegnarsi già da tempo nella riapertura della Via della Seta, se fosse quell’adeguato soggetto di politica internazionale che invece purtroppo non è. Ad ogni modo ormai il dado è tratto. Occorre stare dentro il progetto, ma come interlocutori attivi e condizionanti. Ci sarà mai a Roma qualcuno che ci pensa? Magari ci sarà, ma finora non se ne vede traccia.