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IL BELLO DELLA SCUOLA/33

La tecnica non salverà il mondo. Che ne sarà dell'arte?

L’arte può esistere a prescindere dalla fruizione dell’uomo, ovvero un’opera d’arte è tale anche se non ci fosse più nessuno ad apprezzarla? La chiave è nella bellezza. Rispondono: Foscolo, Leopardi, Dostoevskij e Pirandello.

Cultura 09_02_2020

Ero a teatro l’altro giorno, accompagnavo alcuni studenti ad assistere ad un bello spettacolo. Mi trovavo in una posizione privilegiata che mi offriva la vista sul pubblico: sembrava di essere in mezzo ad una campagna buia con tante piccole lucciole: erano i cellulari, ragazzi che chattavano o navigavano proprio durante l’intero spettacolo. Direte: certo, che cosa può interessare ai ragazzi di oggi il teatro. Ma non è questione di genere artistico. In una sala cinematografica, al sabato sera, la visuale non è molto diversa. In un museo, in una chiesa, lungo le vie di città d’arte sembra spesso venuta meno la capacità di guardare e di stupirsi di fronte al reale, alla bellezza, all’arte.

Ma, mi domando, l’arte può esistere a prescindere dalla fruizione dell’uomo, ovvero un’opera d’arte è tale anche se non ci fosse più nessuno ad apprezzarla? È un dilemma molto attuale, dal momento che nella società occidentale di oggi sembra essere valorizzata più la novità tecnologica che quella artistica, più la funzionalità che la bellezza disinteressata e priva di un’utilità calcolabile, più la produzione artistica come investimento economico che il bello fine a se stesso.

Una volta realizzata, l’arte può rimanere da sola, lontana e non capita dagli uomini, oppure il suo valore e la sua funzione non possono eludere la comprensione o, per lo meno, la nostra fruizione? Se fosse vera la seconda ipotesi, allora ancor più alta sarebbe la responsabilità dei destinatari dell’oggetto artistico. Quante profezie sul futuro dell’arte sono state scritte negli ultimi due secoli.

Nelle Grazie (1812-1813) Foscolo racconta che gli dei diedero ai mortali le grazie, degli esseri intermediari tra cielo e terra, tra gli dei immortali e noi esseri umani. La loro funzione era quella di ingentilire gli animi barbari, di portarli dalla condizione ferina ad una condizione più compiuta attraverso l’arte. L’uomo, a differenza della bestia, possiede questa capacità di cogliere il bello.

Foscolo rappresenta nei primi due inni la nascita delle grazie nell’antica Grecia (perché ivi nasce l’arte) e il loro passaggio in Italia. Il testimone dell’arte classica è così condotto a Roma attraverso la cultura latina e arriva alla sua massima espressione nella nostra penisola nel Rinascimento. Il terzo inno ha un ruolo drammaticamente profetico. Le grazie, infatti, sono in pericolo e si devono rifugiare in Atlantide. Ivi, viene tessuto per loro un velo per proteggerle. L’arte, avverte Foscolo già due secoli fa, è a rischio di estinzione, la bellezza non è salvaguardata e viene confusa con la rozzezza e la volgarità. La scomparsa della bellezza e l’incapacità di coglierla, a detta di Foscolo, sono per qualsiasi civiltà un campanello di allarme per una possibile distruzione dell’umanità, che può ritornare alla condizione primitiva. La catastrofe è incombente.

Nello Zibaldone Leopardi profetizza la diffusione di due canali culturali – artistici: quello della vera arte, destinata a essere compresa da un numero sempre più ridotto di persone, e quello dell’opera grezza, dozzinale e commerciale, per tutti, non più vera arte. La profezia si è pienamente avverata oggi. In mezzo ad una società di consumi come quella attuale si sono affermati il disimpegno, la letteratura di pura evasione, il libro commerciale a cui non chiedere nulla se non il piacere della lettura. Qualcuno potrebbe giustamente notare che la lettura deve sempre provocare diletto, come del resto afferma sempre Leopardi nello Zibaldone. L’espansione dell’acculturamento di massa non ha, però, portato a una vera diffusione, ma a una commercializzazione e a una massificazione della cultura stessa.

Un personaggio de I demoni di Dostoevskij, Stepàn Trofimovic, afferma:
Ma io dichiaro […] che Shakespeare e Raffaello stanno più in alto della liberazione dei contadini, più in alto dello spirito popolare, più in alto del socialismo, più in alto della giovane generazione, più in alto della chimica, quasi più in alto dell’umanità intera, giacché sono già un frutto, il vero frutto dell’umanità intera e, forse, il frutto più alto che mai possa essere! […] Soltanto senza la bellezza non si potrebbe vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo?

Il personaggio riconosce l’indissolubile nesso tra uomo e bellezza, l’urgenza profonda, presente nell’intimo del nostro cuore, di trovare una bellezza cui aderire. Nel contempo, attribuisce alla bellezza stessa il merito di essere l’esito più alto che noi possiamo concepire. Ecco perché il più grande delitto che si potrebbe compiere sarebbe eliminare «Shakespeare e Raffaello», ovvero toglierci una tensione ideale e, nel contempo, modelli di persone pienamente realizzate. Per questo non c’è nulla di così utile all’umanità quanto la bellezza, affermazione che può sembrare paradossale in quanto il bello è di per sé disinteressato.

«Quale bellezza salverà il mondo?» domanda, poi, un personaggio dell’Idiota di Dostoevskij al Principe Miskin. Poco prima, gli ha chiesto: «È vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la “bellezza”?».

Qualche decennio più tardi ne I giganti della montagna, terzo dramma della trilogia del mito, iniziato nel 1931 e terminato postumo nel 1937 dal figlio Stefano, anche Pirandello fa la sua profezia sull’arte. In breve la storia. La Compagnia teatrale della contessa Ilse non trova alcun teatro che permetta la rappresentazione de La favola del figlio cambiato, dramma dello stesso Pirandello.

Giunge così alla villa degli Scalognati dove il Mago Cotrone e gli altri abitanti cercano di allontanarli con ogni forma di magia: lampi, fulmini, fantasmi. Il mago fallisce nel suo intento e decide così di accogliere la contessa Ilse e i suoi attori. Chiede loro di rappresentare il dramma alla villa, perché lì tutto è possibile:
Siamo qui come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… Tutto l’infinto che è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa.

Ilse non accetta. Significherebbe isolare l’arte, non permetterle di vivere in mezzo alla gente, di comunicare il proprio messaggio, di parlare con gli altri. Allora il Mago Cotrone le propone di rappresentare l’opera dinanzi ai Giganti della montagna, persone potenti, ma rozze e insensibili, che rappresentano in un certo senso il potere, il sistema, che non apprezza la bellezza, l’arte e lo spirito, ma vive solo per la materialità. I Giganti non hanno, però, tempo per assistere all’opera e propongono che sia il popolo (i loro servitori) a partecipare alla rappresentazione. Una donna della compagnia ha paura. Il popolo non apprezza l’opera e la fischia. Nasce una zuffa tra la compagnia e gli spettatori in cui Ilse muore.

Anche se Pirandello non ha concluso l’opera e non l’ha rappresentata da vivo, desiderava che fosse l’amata Marta Abba ad interpretare la parte di Ilse, un’eroina che vive per l’ideale dell’arte, àncora di salvezza in un mondo incline ormai al pragmatismo, all’utilità e all’efficienza.

Chi è la contessa Ilse? Nel dramma lei avanza con la sua carretta di attrice girovaga, in cerca di chi possa ascoltare la sua poesia. […] Ha l’aspetto di Marta Abba, […] ma in quella donna che va incontro a morte certa, donando la sua arte agli insensibili barbari della modernità, dandosi in pasto a loro, c’è lui: l’autore. C’è la sua fine; e, come sempre, una sua sottile vendetta verso coloro che ne hanno propriamente disprezzato la voce poetica (Matteo Collura).

A Marta Abba Pirandello confidava che l’opera rappresenta «la tragedia della Poesia in questo brutale mondo moderno» (lettera del 19 maggio 1930). Non è un caso che la contessa Ilse e la sua compagnia stiano cercando di far rappresentare proprio l’opera dello stesso Pirandello La favola del figlio cambiato, il dramma che lo scrittore siciliano portò in giro in Italia e in Germania, ottenendo solo dissenso e disprezzo. L’arte e la poesia possono essere relegati unicamente nella villa degli Scalognati, il mondo della fantasia, il luogo dove il mago Cotrone vive di poesia.

Perché Ilse muore? Nel mondo reale contemporaneo, improntato solo all’interesse economico, al guadagno e al potere, non ci può essere spazio per la bellezza vera, disinteressata, né tantomeno per la riflessione critica su quanto sta drammaticamente avvenendo. Chi se ne fa portavoce, sarà eliminato, ostracizzato o ucciso.

Ma Pirandello vuole comunicare un messaggio chiaro e deciso al riguardo. Vuole trasmettere il senso della missione e della vocazione. Per questo sceglie proprio La favola del figlio cambiato come dramma che Ilse deve mettere in scena e che nessun teatro vuole. Per capirlo dobbiamo vedere quale vicenda si racconti nell’opera.

In un paese alcune streghe rapiscono il figlio sano e bello di una madre e lo sostituiscono al vero erede del re che è brutto e malato. La fattucchiera del luogo consiglia allora a quella donna di prendersi cura del bimbo, perché in quel modo anche il figlio naturale starà bene.

Lontano dalla madre, pur se vive in maniera principesca, il bambino rapito non è felice e si ammala. Solo quando ritorna nel paese natio recupera la salute. Quando il re viene ucciso in un attentato, i cortigiani chiedono il rapido ritorno del principe. Questi scopre, però, di non essere il vero successore e invia alla corte l’altro figlio, quello mostruoso.

Che cosa sta comunicando la storia? Nella vita bisogna scoprire fino in fondo la propria persona, seguire i talenti e la vocazione. Il nome «Ilse» deriva da «il – se», l’anima della storia o «il vero sé». Un altro etimo è «Elsa», diminutivo di «Elisabetta», che significa «pienezza». Contessa (da comites) è, invece, «colei che accompagna nella lotta».

Ne I giganti della montagna la contessa Ilse, che ha interrotto la sua carriera di attrice per sposarsi ad un conte, quando si suicida il poeta che le ha dedicato il dramma La favola del figlio cambiato, ritorna alla sua vera missione e vocazione.