La strage di Gornji Vakuf, trent’anni dopo
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Il 29 maggio cade il 30° anniversario della strage di Gornji Vakuf, dove le milizie musulmane guidate dal comandante «Paraga» uccisero il giornalista Guido Puletti e i due volontari Fabio Moreni e Sergio Lana che stavano portando aiuti umanitari in Bosnia. Fabio e Sergio affrontarono la morte pregando. Una missione che nacque in modo diverso dalle altre.
29 maggio 1993. Sono trascorsi trent’anni da allora. Molti non ricordano più cosa accadde quel giorno, benché all’epoca tutti i quotidiani nazionali ne parlarono.
Erano le quattro del mattino. Il volontario Fabio Moreni, 39 anni, di Cremona, figlio unico, era appena giunto a Spalato alla guida del suo autocarro Mercedes, munito di rimorchio blu. Con lui, a bordo, c’era l’amico Sergio Lana, ventenne, anche lui figlio unico, residente a Gussago, in servizio civile presso la Caritas di Brescia. I due (nella foto - tratta dal libretto della cerimonia che si terrà in loro memoria il 29 maggio - Sergio Lana è in alto, Fabio Moreni a destra; in basso, Guido Puletti) stavano trasportando 300 quintali di aiuti umanitari: viveri, farmaci e generi di prima necessità, soprattutto per l’infanzia.
Moreni non era nuovo a missioni di questo tipo. Non lo erano neppure Sergio Lana e suo padre Augusto. Le partenze venivano coordinate da un comune amico, Giancarlo Rovati, di Ghedi. Oggi Rovati ha 86 anni. Non ha mai smesso di portare aiuti in Bosnia, poi in Africa, ora anche in Ucraina: «Finché il Signore mi accompagna…», dice.
Condivisero molto, in ideali e umanità. Ma l’ultimo viaggio di Moreni, quello no, Rovati non lo condivise. Non era come tutti gli altri. Innanzitutto, l’organizzazione della trasferta venne gestita da un comitato di solidarietà costituitosi a Brescia, estraneo alla Caritas, composto da Comuni e da associazioni pacifiste, molte di sinistra. Tale organismo contattò il Centro di Raccolta della Caritas di Ghedi per non andare nell’ex-Jugoslavia a mani vuote: chiese pertanto un automezzo carico di alimentari. Questa volta, però, non si trattava solo di portare aiuti umanitari: su esplicita richiesta del Coordinamento, l’obiettivo divenne anche quello di trasferire in provincia di Brescia per 60 giorni un gruppo di donne musulmane con i loro bambini, 64 persone in tutto. Era questo che non quadrava: Rovati sapeva come gli stessi musulmani non vedessero di buon occhio tale operazione. Anche Padre Leonard Orec, riferimento della Caritas Francescana in Jugoslavia, la sconsigliò: la zona prescelta era molto pericolosa. Nessuno si aspettava però quel che poi, invece, accadde. Nessun volontario era mai stato colpito, al massimo si poteva prevedere il sequestro del camion e del carico, nulla più. E invece…
Giunti a Spalato, dunque, quel 29 maggio Fabio Moreni e Sergio Lana, dopo una breve sosta in chiesa, presero la strada per Zavidovici. A Spalato si unirono a loro Agostino Zanotti, del Gruppo Coordinamento Bresciano di Solidarietà, il fotografo Christian Penocchio e il giornalista free-lance Guido Puletti, con alle spalle un passato turbolento in Argentina, dov’era finito in mano ai militari per la sua tumultuosa attività sindacale e politica. I tre giunsero a bordo di una Lada Niva blu, presa a noleggio. All’ultimo check-point delle Nazioni Unite, i Caschi Blu li rassicurarono: strada libera, nessuno scontro. Dieci minuti dopo la comitiva italiana aveva raggiunto l’area abbandonata di Granica, chiamata la «Via dei diamanti», perché portava alla miniera di Radovan.
Sulla strada fu imposto loro l’alt da un gruppo di miliziani, i Berretti Verdi, comandati da Hanefija Prijić, più noto come comandante «Paraga» (nella foto, la stele posta nel punto in cui i volontari furono fermati). Condotti in una radura, i miliziani cancellarono le tracce dei mezzi, cui furono strappati i contrassegni della Caritas e le targhe. Vennero poi sequestrati il carico con gli aiuti, le macchine fotografiche, gli effetti personali, il denaro nei portafogli e quello per pagare le spese di trasporto dei profughi, quest’ultimo in un numero di marchi che equivalevano a 20 milioni di vecchie lire. La comitiva riprese il viaggio, scortata dai Berretti Verdi. Fabio Moreni iniziò a pregare, in silenzio. Lo stesso fece Sergio Lana.
Fatti scendere dai veicoli, i volontari furono condotti a bordo di un trattore in un vicino bosco fitto. Due miliziani cantavano in arabo, forse versetti del Corano. Sergio stava stringendo il rosario, oggetto che fu poi restituito ai genitori. Erano le ore 19. A quel punto uno degli aggressori si pose di fronte ai volontari italiani, ad un metro di distanza, imbracciando un kalashnikov. Vedendo Sergio vinto ormai dal terrore, Fabio cercò di fargli coraggio, dicendogli: «Ci penserà il Padre Eterno. Sarà come il Signore vorrà. Abbi fiducia in Dio! Signore, sia fatta la Tua volontà!». Poi venne aperto il fuoco. Puletti cadde subito. Sergio e Fabio, feriti, tentarono la fuga verso il monte, ma furono raggiunti e freddati a colpi di mitra. Gli altri due furono gli unici a scampare all’eccidio: Zanotti dichiarò di essersi gettato in una scarpata e Penocchio dietro un cespuglio. Furono gli unici sopravvissuti. Incredibilmente illesi.
Valeria Arata, la madre di Fabio Moreni (il padre era morto quando lui aveva 23 anni), e i genitori di Sergio Lana, dopo un comprensibile travaglio, maturarono il perdono per gli assassini dei loro figli. Non fu facile istruire il processo nei confronti del comandante «Paraga», benché identificato con certezza: lui, nel frattempo, riuscì prima ad essere nominato capo della Polizia di Gornji Vakuf e poi consigliere comunale. In un’intervista rilasciata ad un giornale di Sarajevo, si proclamò estraneo all’eccidio dei volontari italiani. Ma il 6 ottobre 2000 venne arrestato in Germania su mandato di cattura della giustizia italiana con un’accusa pesante, quella di «crimini di guerra». Il processo poté finalmente essere aperto.
«Paraga» si è sempre proclamato innocente, benché la sua linea difensiva facesse acqua da tutte le parti. Non ha mai fatto il nome degli esecutori materiali della strage, limitandosi a dire che tanto non li avrebbero mai trovati. Né è mai emerso il motivo di quell’inutile e crudele eccidio. Ci fu un primo processo, autorizzato dal Tribunale dell’Aja, a Travnik, in Bosnia. Si concluse il 28 giugno 2001 con una condanna a 15 anni di reclusione, sentenza poi ridotta dalla Corte di Cassazione di Sarajevo a soli 13 anni.
Nell’ottobre 2016, dopo aver scontato la sua pena in Bosnia, «Paraga», ricercato dall’Italia per tentato omicidio, omicidio preterintenzionale e rapina a mano armata, venne di nuovo arrestato dalla Polizia tedesca all’aeroporto di Dortmund. Estradato nel nostro Paese, in primo grado, nel marzo 2017, è stato condannato all’ergastolo, ma la Corte d’Assise d’Appello di Brescia ha trasformato la condanna a soli 30 anni di carcere, divenuti poi 20 per lo sconto di un terzo dovuto al rito abbreviato. Rito senza il quale, forse, si sarebbe potuto sapere di più sulla strage. Niente da fare, il 10 maggio 2018 la Corte di Cassazione ha confermato il verdetto. Tenendo conto degli anni già scontati in galera tra Bosnia e Italia, dell’indulto e della scarcerazione anticipata, il 28 agosto 2018 il comandante «Paraga» è tornato libero. Per sempre.
Ma c’è chi ricorda. Lunedì 29 maggio, nel giorno del 30° anniversario dell’eccidio, a Gornji Vakuf, presso la chiesa parrocchiale, l’arcivescovo emerito di Sarajevo, il cardinale Vinko Puljić, celebrerà una S. Messa in memoria. Alle 14.30, una delegazione italiana - di cui faranno parte, tra gli altri, i vertici vecchi e nuovi della Fondazione Moreni, nonché i genitori di Sergio Lana - sarà sul luogo dove furono fermati, per pregare.
Nel corso di un convegno, svoltosi nel 1993 ad Abbazia (Opatija, in croato), Giancarlo Rovati ricordò come Fabio Moreni e Sergio Lana abbiano «affrontato la morte pregando. Si sono così uniti alla morte di Cristo, versando il loro sangue innocente e Dio solo ne conosce il valore». Una morte da veri cattolici.