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La stagione delle riforme (che però non si faranno)

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Premierato e Giustizia sono riforme che difficilmente potranno essere portate a casa vista la debolezza e le difficoltà del funzionamento del parlamento. Meglio concentrarsi sulla riforma dell'Autonomia che darebbe frutti anche maggiori al Paese. 

Politica 03_06_2024

La sontuosità delle celebrazioni di ieri del 2 giugno, per quanto comprensibile, si scontra con le oggettive criticità che affliggono da tempo la nostra democrazia parlamentare. Si festeggia l’anniversario della Repubblica, ma si dimentica che il suo funzionamento è stato alterato dalla fine dei partiti e dall’esautoramento del Parlamento. Le decisioni le prendono governi spesso non espressione della volontà degli elettori e le due Camere si trovano solo a ratificare decisioni prese a Palazzo Chigi, senza un vero e proprio confronto tra le forze politiche. Anche i governi legittimati da un voto popolare, come quello attualmente in carica, tendono peraltro ad abusare del ricorso alla decretazione d’urgenza.

In campagna elettorale il premier, che ha deciso di candidarsi per portare più voti al suo partito e ridimensionare ulteriormente il peso specifico dei suoi alleati nella coalizione di centrodestra, sta esaltando molto la sua proposta di riforma costituzionale del premierato e, nei giorni scorsi, ha spinto il ministro della giustizia, Carlo Nordio ad accelerare anche su un’altra riforma costituzionale, quella della giustizia, con annessa separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici.

Si tratta, però, di puri slogan destinati a infrangersi contro gli scogli dell’attuale debolezza del Parlamento. Da quando è diventato operativo il taglio dei parlamentari, il ruolo delle due Camere risulta ulteriormente svilito, anche perché spesso manca il numero legale in molte commissioni parlamentari, dal momento che molti senatori e deputati sono anche sottosegretari o ministri e quindi devono occuparsi d’altro e non possono partecipare a tutte le sedute.

Ecco perché appaiono velleitari i proclami che arrivano da Palazzo Chigi. Premierato e riforma della giustizia richiedono una revisione costituzionale prevista dall’art.138 della Costituzione che, rebus sic stantibus, risulta difficilmente percorribile.

Giorgia Meloni ha definito il premierato “la madre di tutte le riforme”. Forza Italia ha ottenuto un’accelerazione anche sulla riforma della giustizia, che il suo fondatore Silvio Berlusconi aveva auspicato per trent’anni.

Ma entrambi i provvedimenti - premierato e riforma della giustizia - sono disegni di legge costituzionale, dunque devono passare per due letture da parte di entrambi i rami del Parlamento, a distanza di almeno tre mesi tra una lettura e l’altra, e a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione. Se le Camere nella seconda votazione non registrano il sì con la maggioranza dei due terzi dei loro componenti, il testo (entro tre mesi dalla pubblicazione), può essere sottoposto a referendum confermativo (ma senza quorum del 50% dei votanti) per iniziativa di almeno un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

Vista la debolezza e le difficoltà di funzionamento del Parlamento, chiamato ad occuparsi anche di temi di particolare urgenza, da quelli economici a quelli sociali, appare improbabile che i parlamentari possano concentrarsi su quei due testi di legge. Tanto più che difficilmente potrebbe arrivare la maggioranza qualificata dei due terzi e dunque bisognerebbe arrivare ad un referendum popolare confermativo.

Considerati i precedenti tentativi riformatori -commissione Bozzi (1983-1985), commissione D’Alema (1997-1998), governi Letta e Renzi (2013-2016) - che sprofondarono infruttuosamente nella palude dei lavori parlamentari e dei veti incrociati, appare irrealistico immaginare che in questa legislatura si possano condurre in porto due riforme di tale portata, peraltro con un duplice sbocco referendario non prima del 2026.

Peraltro la verticalizzazione dell’esercizio del potere insita nel premierato potrebbe provocare scossoni dagli esiti incerti sull’equilibrio tra i poteri e dunque andrebbe ponderata con cura. Stessa considerazione vale per la riforma della giustizia, che certamente avrebbe il pregio di ridimensionare lo strapotere di certe procure, spesso intente a combattere battaglie politiche, ma che potrebbe radicalizzare lo scontro fra giustizia e politica in mancanza di un confronto serio e costruttivo tra governanti e magistrati.

Forse varrebbe la pena che il governo si concentrasse su un’unica riforma, quella dell’autonomia differenziata, che invece è una legge ordinaria che definisce i princìpi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione della Costituzione (articolo 116, terzo comma), nonché le relative modalità procedurali di approvazione delle intese fra lo Stato e una Regione.

Una volta approvata sarebbe una legge subito applicabile e non ci sarebbe bisogno di seguire il procedimento aggravato di revisione costituzionale invece necessario per le altre due riforme. Stando all’art.2 del disegno di legge, che definisce il procedimento di approvazione delle intese fra Stato e Regione, sarebbe il Presidente del Consiglio dei ministri o addirittura il Ministro per gli affari regionali e le autonomie (Roberto Calderoli) ad avviare il negoziato con la Regione richiedente ai fini dell’approvazione dell’intesa. Ma l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all’articolo 116, è consentita solo dopo la definizione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni (lep) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e dei relativi costi e fabbisogni standard.

Riorganizzare sul piano delle competenze territoriali e della gestione delle risorse lo Stato nazionale sarebbe dunque la riforma più semplice e probabilmente anche più utile ad un Paese che sperimenta quotidianamente contraddizioni tra le sue diverse aree geografiche. Peraltro in passato ci furono convergenze tra destra e sinistra sulle riforme federaliste e nel segno del decentramento.

Se il governo Meloni riuscisse nell’intento di condurre in porto l’autonomia differenziata, non solo raggiungerebbe un traguardo ragguardevole per il benessere collettivo, ma probabilmente spaccherebbe ulteriormente il fronte della sinistra, considerato che molti sindaci di quella parte politica sono favorevoli a quella riforma, che reputano decisiva per garantire un futuro stabile all’Italia.