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NICARAGUA

La repressione di Daniel Ortega, icona sanguinaria

Nicaragua: i morti nella repressione sono ormai più di cento. Le manifestazioni, iniziate a seguito di un'impopolare riforma previdenziale (subito ritirata) sono continuate e si sono ingigantite da aprile ad oggi, contro il presidente Daniel Ortega. Al terzo mandato consecutivo è già stato protagonista, negli anni 80, di una storia di violenta dittatura rossa.

Esteri 06_06_2018
Nicaragua, barricate a Managua

Dopo un breve assedio, sono tornati liberi gli oppositori e i manifestanti barricati nella chiesa di San Michele a Masaya, Nicaragua, a 20 km da Managua, capitale del Nicaragua. Monsignor Silvio José Bàez, vescovo ausiliario di Managua, ha ringraziato il parroco locale, Edwig Roman e un avvocato e attivista per i diritti umani, Alvaro Leiva, per aver negoziato con successo la fine dell’assedio. Si è conclusa così, lo scorso fine settimana, l’ultima (in ordine di tempo) sanguinosa vicenda della lotta politica in Nicaragua. Come in Venezuela, più che in Venezuela, una popolazione esasperata si sta ribellando contro un presidente di estrema sinistra che è ormai diventato un dittatore a tutti gli effetti. Ed è un nome notissimo in America Latina e in Europa: Daniel Ortega, icona della rivoluzione negli anni 80.

L’assedio nella chiesa di San Michele, a Masaya, è iniziato quando una trentina di manifestanti anti-Ortega sono stati attaccati da polizia e gruppi paramilitari fedeli al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale. I morti sono stati almeno cinque. Ritiratisi nell’edificio religioso sono stati sotto assedio per più di un giorno. Solo dopo la mediazione, i medici sono potuti entrare nella chiesa per curare i feriti. Il vescovo ausiliario di Managua, usando i suoi profili social, ha diffuso le notizie degli eventi, chiedendo la fine della repressione e invitando i cittadini di Masaya a restare in casa. C’erano, a quanto pare, cecchini sui tetti che avrebbero potuto mietere molte più vittime.

La violenza della repressione è infatti estremamente letale. I morti, secondo un bilancio provvisorio sono già più di 100 dal 18 aprile ad oggi. Alla repressione non prendono parte solo le forze di polizia, ma anche delinquenti comuni e forze paramilitari che non si fanno scrupoli a sparare per uccidere. L’uso di forze irregolari e criminali è stato denunciato dal rapporto di Amnesty International e dall’Inter-American Commission on Human Rights (Iachr). Quest’ultima fa luce sul numero delle vittime, sull’uso della forza letale, su molte esecuzioni extra-giudiziali e sull’uso della tortura nelle carceri. Amnesty, nel suo rapporto sul Nicaragua, denuncia la collusione del governo con gruppi paramilitari e con la criminalità organizzata per sopprimere le proteste studentesche e dell’opposizione. Gli indizi sono chiari: attacchi coordinati con le forze di sicurezza, uso indiscriminato di armi da fuoco anche in presenza della polizia e totale impunità. “Questi gruppi agiscono apparentemente col beneplacito dello Stato – si legge nel rapporto di Amnesty – come è dimostrato, prima di tutto, dal fatto che molti degli attacchi sono commessi da individui comuni in presenza o anche in coordinazione con le forze di sicurezza. In secondo luogo dal fatto che la polizia non persegue gli aggressori dopo che hanno commesso i loro crimini, ma permette loro di fuggire e di disperdersi”.

La protesta è incominciata, con manifestazioni di massa, il 18 aprile scorso. La sua causa immediata è stata la riforma delle pensioni, ordinata dal presidente Ortega. Si rimandava l’età pensionabile, aumentavano i contributi, si riducevano i benefit statali. Un presidente di estrema sinistra tradiva le aspettative della sinistra, insomma. E le proteste non si sono fatte attendere. Già le prime manifestazioni a Managua sono state represse in modo brutale, poi però il presidente Ortega ha subito ordinato un dietrofront. Le riforme sono state ritirate. Ma le proteste sono continuate e si sono ingrandite. Perché ormai avevano preso l’onda giusta, per protesta contro la brutalità della polizia, ma soprattutto perché ormai l’oggetto della protesta è il presidente stesso: Daniel Ortega.

Arrivato al suo terzo mandato consecutivo, al suo undicesimo anno al potere, ha fatto cambiare la costituzione per poter essere riconfermato nel 2016, oltre il suo secondo mandato di fila. Secondo il cartello dei partiti di opposizione, il Fad (Fronte Ampio Democratico), il 70% non è andato alle urne. Nessun osservatore internazionale ha potuto monitorare il voto. Ortega, che ha scelto la moglie Rosario Murillo come sua vicepresidente, confermando l’attaccamento di tutta la famiglia al potere. Di fronte alla accuse di repressione armata, lei ha dichiarato che la polizia agisce “per auto-difesa”. L’esercito, al contrario, si rifiuta di partecipare all’azione repressiva.

La Chiesa, molto presente nella società nicaraguense, sta svolgendo un assiduo ruolo di mediazione, sia per le strade che ai piani alti del governo. Tuttavia, il dialogo fra opposizione e governo, promosso dalla Chiesa, è fallito la settimana scorsa. Un appello al dialogo è arrivato anche da Papa Francesco che ha chiesto il rispetto della libertà di manifestare. “Mi unisco ai miei fratelli vescovi del Nicaragua e al loro dolore per le violenze compiute da gruppi armati”, ha detto il Pontefice all'Angelus, “la Chiesa è sempre per il dialogo ma questo richiede impegno fattivo a rispettare la libertà e soprattutto per la vita. Si assicurino le condizioni per la ripresa del dialogo”.

Il problema è che l’autoritarismo di Ortega, la sua repressione e le sue politiche economiche che hanno ridotto il paese alla fame, sono retaggi di decenni di rivoluzione e guerra civile. E’ una storia vecchia, quasi quanto quella di Cuba. Quando il Fronte Sandinista prese il potere la prima volta, dopo la rivoluzione armata contro il dittatore Anastasio Somoza e due anni di sanguinosa guerra civile, correva l’anno 1979. Dopo la fine della dittatura i sandinisti iniziarono a preparare il loro potere, con i consueti metodi usati dai comunisti in tutto il mondo: partecipazione alle nuove istituzioni democratiche, ma istituzione di un esercito parallelo e di una polizia politica. Nel giro di un anno, tutti i partiti non comunisti erano stati esclusi dal governo e perseguitati. Nel dicembre del 1979, appena quattro mesi dopo la fine della dittatura di Somoza, i sandinisti avevano già istituito i loro tribunali speciali, che giudicavano in base ad accuse politiche e in modo sommario. Tre anni dopo, nel 1982, il nuovo regime proclamò lo “stato d’assedio” e soppresse tutte le libertà residue. La popolazione venne mobilitata e irreggimentata in organizzazioni controllate dal partito. Gli indios, delle tribù Miskitos, Sumu e Rama, oggetto di un programma di “integrazione” forzata, vennero deportati a migliaia. Le prime ribellioni incominciarono ben presto.

Ex somozisti, partiti democratici, indios: molti avevano l’interesse a ribellarsi per sopravvivere al nuovo corso del Nicaragua. Uno dei leader della rivoluzione, Eden Pastora (detto il Comandante 0) condusse dal 1981 l’insurrezione nell’estremo Sud del paese, al confine con il Costa Rica. Nel Nord, al confine con l’Honduras, prese le armi l’Fdn (Forze Democratiche Nicaraguensi). Entrambe le forze insurrezionali, bollate dal nuovo regime rosso come “controrivoluzionarie” (contras), furono il pretesto per un’ulteriore intensificazione della repressione. Come a Cuba e nel resto del mondo comunista, le carceri divennero luoghi di estrema sofferenza. Per la sua violenza, divenne famosa soprattutto la prigione di Las Tejas. Vennero istituiti campi di concentramento dove i prigionieri erano sottoposti a un duro regime di lavori forzati e di “rieducazione”. Come in altri regimi dell’America latina, sia di destra che di sinistra, furono molto frequenti le “sparizioni” degli oppositori politici e dei loro parenti. E a causa della guerriglia, intere popolazioni vennero trasferite, con o senza il loro consenso, per esigenze militari. Le rappresaglie, per i villaggi sospettati di aver collaborato con i controrivoluzionari, erano spietate: case rase al suolo ed esecuzioni sommarie.

Le elezioni arrivarono solo nel 1984, al quinto anno di dittatura e al terzo di guerra civile, e vennero vinte, senza dover affrontare vere opposizioni, dal leader sandinista Daniel Ortega. Il suo regime è finito formalmente nel 1990, con la vittoria nelle prime elezioni libere di Violeta Chamorro. In mezzo c’era stato il crollo di tutto il blocco comunista dell’Est europeo e la fine degli aiuti dall’Urss, oltre ai costi enormi di una guerra civile che aveva stroncato la vita a circa 50mila persone, soprattutto civili inermi. I governi nicaraguensi successivi alla dittatura sandinista promossero dialogo e pacificazione, ma non fecero realmente i conti col passato. Non vi fu, insomma, un equivalente del processo di Norimberga per i crimini del comunismo. E così Ortega poté ripresentarsi nel 2007, candidato presidente portatore di idee populiste e progressiste, amico di Hugo Chavez che lo sosteneva. Vinse le elezioni, stavolta regolarmente. Ma una volta preso il potere dimostrò di non aver perso il vecchio vizio: quello di non mollarlo più.

Che il presidente Ortega sia ancora un mito rivoluzionario lo si deduce dalla stessa voce di Wikipedia a lui dedicata. In data 6 giugno, si legge questa laconica quanto propagandistica descrizione dei drammatici eventi di questi mesi: "Nel maggio 2018, in seguito all'entrata in vigore di una riforma del sistema previdenziale, che addossa nuovi oneri agli imprenditori, sedicenti 'studenti', appoggiati dalla Cosep (la Confindustria locale) e dal giornale dei Contras, La Prensa, organizzano nel paese numerose forme di violenze contro il governo presieduto da Ortega, nelle quali vengono uccise numerose persone, tra cui agenti di polizia, giornalisti e viene incendiata la sandinista Nuova Radio Ya, una delle radio più importanti del Nicaragua. La gerarchia ecclesiastica appare dalla parte dei gruppi violenti, ma non così il vecchio cardinale Miguel Obando y Bravo, che però muore nel sonno il 3 giugno 2018. Il ministro degli Esteri del Nicaragua, D. Moncada, definisce le violenze della destra: un Colpo di Stato". Parrebbe di leggere il Granma, il giornale del regime cubano, non certo l'enciclopedia universale online, con la sua pretesa imparzialità. Degli oltre 100 morti della repressione non v'è nemmeno un accenno: essendo contras, controrivoluzionari, la loro storia è stata già riscritta in tempo reale, la loro memoria è già dannata.