La reincarnazione imposta al Dalai Lama
Il Dalai Lama dichiara a un quotidiano tedesco che, alla fine della sua vita, potrebbe non reincarnarsi. Oppure scegliere un nuovo Dalai Lama in un buddhista occidentale, lontano dall'apparato repressivo cinese. Ma la Cina, con una dichiarazione ufficiale del Ministero degli Esteri, gli ordina di reincarnarsi.
L’attenzione di tutti, tra commemorazioni dell’11 settembre e venti di guerra in Medio Oriente, è giustamente concentrata sui musulmani, ma quello che sta succedendo negli ultimi giorni tra i buddhisti – 513 milioni di fedeli nel mondo, secondo stime aggiornate al 2014 – è così singolare da meritare qualche attenzione. In sequenza, abbiamo letto dapprima domenica scorsa un’intervista del Dalai Lama al quotidiano tedesco della domenica «Welt am Sonntag», dove afferma che alla sua morte potrebbe anche non reincarnarsi, così che non ci sarebbe un nuovo Dalai Lama. In effetti, ogni Dalai Lama è considerato non solo il successore ma la reincarnazione del precedente, e quando muore i monaci tibetani di più alto lignaggio vanno alla ricerca di un neonato in cui, secondo segni che solo loro sanno interpretare, il defunto Dalai Lama si è reincarnato.
«Le persone che pensano politicamente devono rendersi conto che l’istituzione del Dalai Lama, dopo quasi 450 anni, dovrebbe aver fatto il suo tempo», ha detto al giornale tedesco il XIV Dalai Lama, così che dopo la sua morte potrebbe non essercene un XV. Nulla d’imminente, peraltro. «Secondo i medici che mi hanno visitato – ha detto nell’intervista –, arriverò a 100 anni. Stando ai miei sogni a 113. Ma 100, credo, saranno sicuri». Il Dalai Lama ha 79 anni, e afferma comunque che riesaminerà il problema quando ne avrà 90.
Questione chiusa, dunque, almeno per il momento? Niente affatto. Mercoledì 10 settembre il Ministero degli Esteri cinese ha diffuso una nota in cui afferma che la successione del Dalai Lama non può essere decisa da un solo individuo ma deve «seguire un insieme di procedure religiose e di costumi storici». «Il titolo di Dalai Lama ha centinaia di secoli di storia – prosegue la nota firmata da Hua Chun-Ying, portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino –. Il XIV Dalai Lama ha un’agenda occulta e sta cercando di distorcere e negare la storia, il che danneggia l’ordine normale del buddhismo tibetano».
A prima vista, sembra una commedia dove ognuno recita la parte sbagliata. Come ha titolato l’agenzia Reuters, «Pechino ordina al Dalai Lama di reincarnarsi». Il leader buddhista sembra avere dubbi sull’opportunità di proseguire la tradizione del «tulku», del lama reincarnato, che dovrebbe essere un caposaldo della sua dottrina. Il governo cinese – ufficialmente ancora marxista – non dovrebbe credere alla reincarnazione, ma si erge a difensore delle «procedure religiose» e dell’«ordine normale del Buddhismo tibetano» e, nella sostanza, minaccia il Dalai Lama con un «guai a te se non ti reincarni».
La matassa si può dipanare, ma prima sono necessarie alcune precisazioni. Contrariamente a quanto pensano molti occidentali, il Dalai Lama non è il «Papa» o il capo dei buddhisti. Il buddhismo è infatti anzitutto diviso in due (o tre) grandi correnti, una più antica detta «di fondazione» – il termine «hinayana» (piccolo veicolo), coniato dagli oppositori di questa corrente, non è più usato nel mondo accademico – e una più recente detta «mahayana» (grande veicolo). Delle diciotto scuole della corrente «di fondazione», divenuta minoritaria, oggi ne sopravvive solo una, quella Theravada, nata nello Sri Lanka e tuttora maggioritaria in questo Paese oltre che in Tailandia, Cambogia, Birmania, Laos e Vietnam. Nel resto del mondo buddhista domina la corrente mahayana, divisa però a sua volta in moltissime scuole. All’interno del mondo mahayana nasce poi in India, Tibet e Mongolia, quella che secondo alcuni è una sua parte, secondo altri una terza grande suddivisione del buddhismo: la corrente «vajrayana» (veicolo del diamante), fortemente influenzata da religioni popolari precedenti al buddhismo e dal tantrismo, un vasto fenomeno che attraversa induismo e buddhismo e che ricerca l’illuminazione a partire da elementi materiali e visibili, comprese le raffigurazioni artistiche e (in alcune scuole) l’uso sacro della sessualità. Fra queste correnti ci sono differenze teologiche fondamentali, dal buddhismo «di fondazione» austero e filosofico – tanto che alcuni lo considerano sostanzialmente ateo – fino alle correnti mahayana e soprattutto vajrayana caratterizzate da un lussureggiare di divinità, miracoli e profezie.
Anche la corrente vajrayana si frammenta in molte scuole e «sistemi» rivali. In Tibet coesistono una dozzina di «sistemi» principali. Il sistema detto Geluk non è il più antico, essendo stato fondato alla fine del XIV secolo dal lama Tzong Khapa (1357-1419), il cui discepolo Gendundrup (1391-1474) è considerato il primo Dalai Lama, ma ha un ruolo politico cruciale perché nel 1642 il V Dalai Lama, con il sostegno mongolo, s’insedia come massima autorità politica del Tibet. Da allora, e fino all’invasione cinese del 1950, i Dalai Lama detengono il potere politico nel Paese himalayano. I Dalai Lama si considerano la reincarnazione del «bodhisattva» Avalokitesvara, che rappresenta la grande compassione. I «bodhisattva» sono spiriti superiori che si reincarnano volontariamente per aiutare l’umanità e talora personificano attributi del Buddha. Nel XVII secolo il V Dalai Lama proclama il suo maestro e consigliere Lobsang Chökyi Gyalsten (1570-1662) quarta incarnazione in Tibet – ce ne sarebbero state altre tre prima - di un altro «bodhisattva», Amitabha, creando per lui il ruolo di Panchen Lama, con sede nel monastero di Tashilhunpo, che rappresenta l’autorità religiosa, mentre la sede del governo e del Dalai Lama è stabilita a Lhasa. Molti occidentali conoscono la ricerca da parte dei monaci dei neonati che saranno il nuovo Dalai Lama e il nuovo Panchen Lama, ma prima dell’arrivo dei cinesi c’erano tremila lignaggi buddhisti trasmessi per reincarnazione con lo stesso sistema – quasi tutti maschili – e molti sono continuati nella diaspora tibetana che si è dispersa per il mondo per sfuggire all’occupazione cinese.
Da quanto precede emerge che il Dalai Lama non è il capo di tutti i buddhisti: quelli Theravada ma anche molti della corrente mahayana – per esempio delle tradizioni giapponesi Zen e Nichiren, diffuse anche in Italia – lo rispettano per la sua coraggiosa resistenza all’imperialismo cinese, ma non lo considerano in nessun modo un’autorità in grado di definire la loro religione. Alcuni dubitano persino che quello vajrayana sia un vero buddhismo, una posizione condivisa anche da studiosi occidentali fino alla grande riabilitazione del buddhismo tibetano – un tempo liquidato come sincretismo tra buddhismo e tradizioni magiche locali non buddhiste – nel XX secolo. Il Dalai Lama non è neppure il capo di tutti i buddhisti tibetani, ma solo del sistema Geluk. E anche all’interno di questo sistema si sono manifestati scismi. Tuttavia, se religiosamente le sue credenziali sono ristrette a un singolo «sistema» all’interno della più piccola delle tre correnti buddhiste, quella vajrayana, politicamente il Dalai Lama è molto importante, perché rappresenta la continuità di una monarchia sacra buddhista che ha avuto un grande ruolo politico e culturale e si è guadagnata anche molte simpatie a causa della brutalità della repressione cinese.
Come sanno bene i cattolici, il metodo con cui la Cina reprime le religioni è quello di creare comunità religiose «patriottiche» i cui dirigenti sono infeudati al Partito Comunista. Quando ha invaso il Tibet, la Cina non è riuscita a ingraziarsi il Dalai Lama, che ha preferito l’esilio, ma ha puntato sul X Panchen Lama, che ha dichiarato di appoggiare l’occupazione cinese. Senonché con la rivoluzione culturale e l’ostilità alle tradizioni religiose in genere, anche il X Panchen Lama, per quanto collaborazionista, fu arrestato e trattato in modo brutale nelle carceri cinesi. Rilasciato, è morto nel 1989. I monaci leali al Dalai Lama – cui secondo la tradizione Geluk spetta comunque l’ultima parola su quale neonato sia la reincarnazione del Panchen Lama defunto – hanno identificato l’XI Panchen Lama in un bambino chiamato Gedhun. Nel 1995 questo bambino – che oggi dovrebbe avere venticinque anni – è stato sequestrato dal governo cinese, il quale continua a sostenere che non è morto, è andato a scuola e vive tranquillo in Cina sotto falso nome, anche se dopo la sua sparizione dal Tibet all’età di sei anni nessuno lo ha più visto. Sempre nel 1995, monaci leali al Partito Comunista cinese hanno dichiarato che Gedhun non era la reincarnazione del precedente Panchen Lama e hanno selezionato altri candidati, tra i quali – secondo una procedura che gli imperatori cinesi avevano già cercato di imporre al Tibet in secoli passati – l’estrazione a sorte da un’antica urna d’oro ha determinato chi fosse davvero la reincarnazione del lama defunto nel 1989. La sorte – o le manovre del Partito Comunista cinese – hanno prescelto Gyaincain Norbu, che aveva allora sei anni e che i cinesi e i monaci tibetani filo-cinesi considerano non solo l’XI Panchen Lama ma il leader di tutto il buddhismo tibetano, se non una delle massime autorità buddhiste mondiali. Il governo di Pechino, dopo averlo educato a svolgere questo ruolo, lo promuove in modo molto attivo, ma la maggioranza dei buddhisti ne diffida.
La vicenda dei due Panchen Lama è la chiave per capire le ultime dichiarazioni del Dalai Lama, che non si riducono all’intervista al «Welt am Sonntag», dove è comunque importante l’affermazione secondo cui nessuna decisione è ancora stata presa e se ne riparlerà tra una decina di anni. Ad altri giornali il Dalai Lama ha dichiarato che, qualora decidesse di reincarnarsi – una decisione che, a differenza delle persone ordinarie, per gli alti iniziati secondo il sistema Geluk è effettivamente volontaria –, probabilmente lo farebbe in un neonato occidentale, non tibetano. La storia sarebbe simile a quella del film del 1993 di Bernardo Bertolucci «Piccolo Buddha», ma il punto è che i cinesi avrebbero molte più difficoltà a far sparire un piccolo Dalai Lama americano o europeo di quante ne ebbero nel rapire l’XI Panchen Lama nel 1995.
Il Dalai Lama e i suoi consiglieri hanno espresso più volte la preoccupazione che proprio la vicenda del Panchen Lama potrebbe ripetersi per il futuro Dalai Lama. Quando il Dalai Lama muore, l’ultima parola su quale neonato ne sia la reincarnazione spetta al Panchen Lama. Ma di Panchen Lama – a meno che quello riconosciuto dal Dalai Lama e rapito dai cinesi diciannove anni fa, Gedhun, sia morto – ce ne sono due. Morto il Dalai Lama, i cinesi sosterrebbero che alla fine su quale neonato sia la sua nuova reincarnazione la decisione spetta al «loro» Panchen Lama, Gyaincain Norbu, con la conseguenza che il piccolo XV Dalai Lama sarebbe anche lui allevato dal Partito Comunista cinese e diventerebbe una sua creatura.
Il XIV Dalai Lama, quello attuale, non può «nominare» un nuovo Panchen Lama alternativo a Gyaincain Norbu. Per i suoi seguaci, la reincarnazione è una cosa seria e fino a che non c’è la prova che il «vero» Panchen Lama, Gedhun, sia defunto ovviamente non si può cercare la sua reincarnazione. Se il Dalai Lama morisse, e il Panchen Lama non ci fosse o fosse impossibilitato a pronunciarsi – per i Geluk leali al Dalai Lama quello di Pechino, Gyancain Norbu, è un Panchen Lama fasullo e non conta – spetterebbe ad altri monaci l’ultima parola sull’identificazione del nuovo Dalai Lama. Il problema è che, sotto il Dalai Lama e il Panchen Lama, quella della gerarchia fra i tremila lignaggi buddhisti tibetani trasmessi per reincarnazione non è una scienza esatta, e chi sia più alto in grado è a sua volta oggetto di contenzioso fra il Dalai Lama e i cinesi, per motivi non tanto storici ma politici, ciascuno favorendo i lignaggi che si sono schierati per l’uno o l’altro campo. Comunque sia, alla morte dell’attuale Dalai Lama è certo che i cinesi affermerebbero che spetta al «loro» Panchen Lama, Gyancain Norbu, identificare il nuovo Dalai Lama, sceglierebbero un neonato e comincerebbero a educarlo a loro uso e consumo.
Il XIV Dalai Lama non può impedire che questo accada. Ma dichiarando che forse non si reincarnerà – ripetiamolo, come alto iniziato sarà libero di decidere nell’aldilà se reincarnarsi o no, una libertà che i comuni mortali secondo la sua versione del buddhismo non hanno –, o magari si reincarnerà in un bel neonato figlio di buddhisti americani o europei, prepara la strada perché i suoi seguaci possano dichiarare ad alta voce che il XV Dalai Lama che sarà presentato al mondo dai comunisti cinesi sarà fasullo.