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ORA DI DOTTRINA / 55 - IL SUPPLEMENTO

La pretesa di riformare la Chiesa? Tipica degli eretici

Proseguendo la riflessione sullo sviluppo della dottrina, Newman introduce il sesto criterio: l'azione conservatrice sul passato. Ogni sviluppo realmente tale porta a maturazione qualcosa che era già presente nella “giovinezza” della fede, conservandolo e consolidandolo proprio nel processo di maturazione. L'esempio della devozione alla Vergine Maria.

Catechismo 05_02_2023

«In genere gli eretici sostengono che le loro innovazioni mirano solo a servire e a salvaguardare il cristianesimo. Essi accusano [...] la Chiesa cattolica di averlo obliterato ed oscurato con le sue successive definizioni». Così esordisce il capitolo undicesimo del saggio Lo sviluppo della dottrina cristiana di J. H. Newman, dedicato al criterio, il sesto, dell’azione conservatrice sul passato.

Molto spesso gli eretici pretendono di “riformare” la Chiesa, scrostando tutte le sovrapposizione successive, che avrebbero oscurato il contenuto della fede in uno o più aspetti. Che sia una effettiva convinzione o un paravento dietro il quale coprire il proprio intento sovversivo non è questione che interessi Newman. Il punto è che sia gli eretici che i cattolici possono affermare che un autentico sviluppo non può distruggere la forma originaria del cristianesimo; e che dunque, se si verifica questa distruzione, non si tratta più di sviluppo ma di deviazione.

Ogni sviluppo realmente tale porta a maturazione qualcosa che era già presente nella “giovinezza” della fede, conservandolo e consolidandolo proprio nel processo di maturazione. Dunque, all’eretico bisogna mostrare non che non vi sia stato un mutamento, ma che questo mutamento sia il frutto dell’aver condotto a maturità e perfezione qualcosa che era solo incipiente e implicito. Bisogna dunque porre massima attenzione, perché «dei mutamenti i quali, a prima vista, sembrano essere in contraddizione con il principio da cui sono cresciuti, ne sono, in realtà, la salvaguardia e l’applicazione».

L’esempio più ampiamente presentato da Newman riguarda la devozione alla Vergine Maria: «Ci si è chiesti con preoccupazione se gli onori tributati alla Vergine Maria e che procedono dalla devozione verso il suo Figlio ed Onnipotente Signore, non tendano a sminuire proprio questa devozione. Ci si è chiesti anche se, in forza della natura stessa delle cose, è possibile esaltare una creatura senza distogliere il cuore dal Creatore». Lo sviluppo straordinario della devozione mariana avrebbe distrutto la forma originaria di adorazione di Cristo e del Dio uno e trino?

Un’altra obiezione che viene spesso mossa è il silenzio delle Scritture sui cosiddetti dogmi mariani e sugli altri titoli d’onore che vengono attribuiti alla Madonna. Se la Madre di Gesù fosse così “straordinaria”, come i cattolici affermano, le Scritture non si sarebbero premurate di mostrarcelo?

Partiamo dalla prima obiezione. Newman ha buon gioco a mostrare che «non sono le confessioni religiose nelle quali vige la devozione verso la Vergine Maria quelle che hanno cessato di adorare il suo eterno Figlio, ma, invece, proprio quelle che hanno rinunciato alla devozione verso di lei». Senza scomodare le confessioni non cattoliche, ci limitiamo a constatare quello che abbiamo spesso sotto gli occhi a casa nostra; e che cioè non è dove ferve la devozione a Maria Santissima che si riscontrano segnali di mancanza di adorazione verso il Figlio, ma tra i “mariani minimalisti”. Più la devozione verso la Madonna abbraccia la misteriosa grandezza di colei che è «termine fisso d’eterno consiglio» e più si viene radicati nella profonda adorazione dell’Onnipotente.È la “logica” del Magnificat, che trasferisce immediatamente in Dio ogni lode per le grandi grandi cose da Lui operate nella Madre sua; è il senso della persona di Maria, che gravita interamente attorno alle Persone della SS. Trinità.

D’altronde è un fatto che i primi dogmi mariani nascano, come spiegava Ratzinger a Vittorio Messori nel best-seller Rapporto sulla fede, «al servizio diretto della fede nel Cristo». La Verginità perpetua e la divina Maternità vengono affermate per “difendere” l’unione ipostatica.
In ogni mistero mariano troviamo espresso il legame tra la mariologia e la cristologia, tra il mistero di Maria e quello del verbo Incarnato. Nell’Allocuzione del 21 novembre 1964, Paolo VI poteva affermare che la «vera dottrina cattolica su Maria costituirà sempre una chiave per l’esatta comprensione del mistero di Cristo e di Maria». La grandezza di Maria sta proprio nel suo essere totalmente relata al Figlio, e in Lui, al Padre ed allo Spirito Santo.

Quanto alla seconda obiezione, si può in realtà notare come i grandi titoli mariani fossero realmente già “nascosti” nei libri del Nuovo Testamento mentre interpretavano in chiave cristologica l’Antico. Gli esempi non sono pochi. Pensiamo, per esempio, al brano dell’Annunciazione (cf. Lc 1, 26-38). Pochi riflettono sul fatto che lì  - e non solo lì - troviamo tutti gli elementi per fondare la Regalità universale di Maria e la sua onnipotente mediazione verso il Figlio. Più volte in questo brano si sottolinea che in Gesù si adempire pienamente la grande speranza di Israele della permanenza del trono di Davide. È qualcosa a cui noi pensiamo poco, ma che non possiamo non riconoscere come centrale nella speranza d’Israele. E così l’evangelista Luca in soli due versetti (32-33) sottolinea per tre volte questo adempimento: «il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

Perché è così importante, per il discorso mariologico, questa sottolineatura? Perché, insieme alla regalità di Gesù, viene rivelato che Maria SS. è la Regina Madre, la Gebirah, ossia la Signora, madre del re. Questo titolo viene conferito non alla moglie del re (che spesso erano più d’una), ma alla madre, perché è mediante la madre del re che passa la benedizione divina per rendere saldo il trono di Davide. Per questa ragione la Gebirah, insieme alla sua dignità, acquisisce dei poteri unici.

Per averne un’idea, basta leggere due brani del primo libro dei Re. Il primo (2, 19-20) mostra il re Salomone che si alza per andare incontro alla madre Betsabea, si prostra davanti a lei e fa collocare un trono per lei. Il secondo, appena precedente (2, 13-18), vede il quarto figlio di Davide, Adonia, rivolgersi a Betsabea per ottenere in moglie Abisag la Sunammita, con questa espressione: «Dì al re Salomone – il quale nulla ti può negare». C’era un diritto della Gebirah di essere esaudita dal re. Salomone poi non ascolterà la madre, perché preso da gelosia, e farà mettere a morte Adonia. Ma sia Betsabea che Salomone erano solo ombre imperfette di Maria Regina e Cristo Re. Questo episodio getta, tra l’altro, una luce importante sul brano delle nozze di Cana (cf. Gv 2, 1-11), nel quale Maria emerge come la Gebirah che intercede presso il Figlio.

Vi sono molti altri esempi, che qui non abbiamo spazio di riportare, che mostrano un dato certo: il Nuovo Testamento, mediante una lettura tipologica dell’Antico, comprensibile proprio mediante il confronto con questo e con le fonti della tradizione rabbinica, contiene dei riferimenti solidi che sostanziano lo sviluppo fecondo e crescente della tradizione cristiana sul mistero di Maria.

In questo sviluppo troviamo pienamente realizzato il principio di Newman dell’azione conservatrice sul passato ed il correlato quinto criterio dell’anticipazione dello sviluppo futuro.