La povertà è centro del Vangelo? La lezione di Biffi
La confusione tra povertà spirituale e povertà materiale come tratto distintivo del pensiero di Bergoglio affonda le radici nel “Patto delle Catacombe” del 1965 firmato da una quarantina di Padri conciliari che si impegnavano a vivere e lottare per una Chiesa povera e ugualitaria. La lezione di Biffi che ha insegnato come l'espressione “Chiesa povera” sia ambigua e forviante.
La Giornata Mondiale dei Poveri celebrata domenica scorsa è stata per Jorge Mario Bergoglio l’ennesima occasione per ribadire la sua particolare visione sul tema. Durante l’omelia della Messa officiata in San Pietro, è andato oltre rispetto al solido. Ha ricordato quei fedeli che lamentano un’insistenza quasi ossessiva sulla questione della povertà e chiedono, giustamente, che gli si parli anche della «salvezza eterna».
Il Papa argentino ha stigmatizzato tale richiesta, precisando che i poveri sono «il centro del Vangelo». Tutto il resto – compresa la salvezza eterna – passa in secondo piano, viene dopo, è marginale rispetto all’autentica centralità del messaggio evangelico. Singolare teoria. In realtà, come ha ben evidenziato il filosofo Flavio Cuniberto nel suo libro Povertà. Papa Francesco e la rifondazione del cristianesimo, un simile approccio nei confronti del problema della povertà cade in due contraddizioni: la prima di natura teologico-dottrinale, la seconda di carattere pratico.
Con la prima contraddizione si tende a considerare la povertà una condizione più materiale che spirituale, per trasformarla quindi in una categoria sociologica.
La seconda contraddizione, invece, riguarda il fatto di identificare le cause di questo fenomeno nella “disuguaglianza”, e di indicare quindi come soluzione quella prospettata dall’ideologia marxista e terzo-mondista della redistribuzione delle ricchezze: togliere ai ricchi e dare ai poveri. Una sorta di redistribuzione ugualitaria basata su una maggiore globalizzazione delle risorse, alla cui base, però, sta sempre la logica del profitto. Ora, delle due l’una: o il profitto è la fons omnium malorum che genera povertà, o il profitto è la via per sconfiggere tale fenomeno.
Quanto tale approccio contraddittorio fosse presente nel programma politico-pastorale di Bergoglio lo si è capito fin dal suo insediamento sul Soglio di Pietro. In uno dei suoi primissimi discorsi, tenuto il 16 marzo 2013, parlando in Aula Paolo VI a 6.000 giornalisti, egli spiegò che a scelta del nome Francesco derivava proprio dalla sua intenzione di ispirarsi al Santo che, secondo lui, «ha incarnato la povertà». Fu in quell’occasione che, per la prima volta, esternò quello che sarebbe successivamente divenuto un vero e proprio mantra: «Voglio una Chiesa povera per i poveri».
Nella lettera inviata a Julian Carrón, l’attuale capo di C.L., Bergoglio spiegò che tale desiderio costituisce un vero e proprio programma: «Non desisto dall’invocare la grazia di una Chiesa povera e per i poveri. Non è un programma liberale, ma un programma radicale perché significa un ritorno alle radici. Il riandare alle origini non è ripiegamento sul passato ma è forza per un inizio coraggioso rivolto al domani». Nell’enciclica Evangelii Gaudium, si spinse oltre affermando di «desiderare una Chiesa povera per i poveri», perchè «essi hanno molto da insegnarci» ed «è necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro» (EG n.198). La povertà come insegnamento e messaggio salvifico oggetto di evangelizzazione. Queste considerazioni, in realtà, mi fanno venire in mente le sagge e realiste parole del don Camillo di Giovannino Guareschi: «La povertà è una disgrazia, non un merito. Non basta essere poveri per essere giusti. E non è vero che i poveri abbiano solo diritti e i ricchi solo doveri: davanti a Dio tutti gli uomini hanno esclusivamente dei doveri».
La confusione teologica, esegetica e morale tra povertà spirituale e povertà materiale non è solo un tratto distintivo del pensiero teologicamente debole di Bergoglio ma ha radici più profonde.
Probabilmente in quel “Patto delle Catacombe” sottoscritto il 16 novembre del 1965 nelle Catacombe di Domitilla a Roma, da una quarantina di Padri conciliari che si impegnavano a vivere e lottare per una Chiesa povera e ugualitaria. Quei Padri furono accompagnati da importanti teologi, tra cui padre Yves Congar, il quale, al termine della prima sessione del Concilio, pubblicò il libro Per una Chiesa serva e povera.
Ma ha davvero senso parlare di una Chiesa povera?
Tra i vari volumi che non dovrebbero mai mancare negli scaffali della libreria di un cattolico ve n’è uno in particolare, scritto dal grande cardinale Giacomo Biffi. Il titolo è Memorie e digressioni di un italiano cardinale. Mi capita spesso di rileggerlo e sfogliarlo quando ho necessità di una boccata d’ossigeno. Soprattutto in questi tempi in cui siamo costretti a respirare un’aria a tratti pestilenziale dal punto di vista della fede. Ho ripreso in mano il libro anche per avere lumi sulla questione della cosiddetta Chiesa povera, ed ho trovato questa interessante considerazione di Biffi: «Personalmente sono abbastanza critico sull’uso così diffuso dell’espressione “Chiesa povera”: è ambigua, può essere forviante, e serve di fatto a quelle forze mondane che osteggiano in tutte le maniere un’efficace presenza della “nazione santa” nella storia. Il Vangelo è chiaro ed esigente nel prospettare a tutti noi il distacco dai beni di quaggiù e la rinuncia agli agi, ovviamente in conformità al proprio stato. E questo vale in modo particolare per gli ecclesiastici, che dovranno guardarsi da un’esistenza troppo lussuosa o troppo comoda […].
Ma non sta scritto da nessuna parte nel Nuovo Testamento che la Chiesa non debba avere i mezzi necessari per il miglior esercizio della sua missione sulla terra, né che il popolo credente non possa esprimere la sua fede e l’amore per il Signore che l’ha redento, anche attraverso la bellezza e il pregio di tutto ciò che serve al culto del vero Dio e alla celebrazione dei misteri della salvezza. Ci può utilmente illuminare su tale questione la condotta seguita da sant’Ambrogio. Ricco di famiglia, una volta divenuto vescovo cedette ogni possedimento alla sua Chiesa […] “per seguire Cristo Signore – nota il suo segretario e biografo Paolino – come un soldato non appesantito da armi e senza bagagli” (Vita Ambrosii 38,5).
Era larghissimo nell’aiutare concretamente i poveri, e non aveva esitato a infrangere i vasi sacri per riscattare con l’oro ricavato i cristiani caduti prigionieri dei barbari. Ma al tempo stesso non temeva di promuovere la costruzione di nuove ampie basiliche e di uno splendido battistero ottagonale. Come si vede, la sua volontà di attenersi integralmente ai consigli evangelici lo spingeva a praticare personalmente la povertà e a soccorrere chi era nella necessità. Era però ben lontana dai suoi pensieri l’idea che la Chiesa non dovesse avere i mezzi che le facilitassero i suoi compiti apostolici. Lasciando alla Chiesa di Milano tutte le sue proprietà, egli ci dà implicitamente un insegnamento che non va disatteso». Sano realismo biffiano.