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CONVENZIONE DI ISTANBUL

La Polonia resiste ai dogmi Lgbt. L’Ue la ricatta sui fondi

Continua la morsa dell’Ue contro la Polonia: la Commissione von der Leyen annuncia che sei città (pro-famiglia) non riceveranno i fondi. Ciò avviene dopo che il governo polacco aveva ventilato la possibilità di recedere dalla Convenzione di Istanbul (pro-gender). E il premier Morawiecki incarica la Corte costituzionale del proprio Paese di dare un giudizio.

Attualità 01_08_2020

Due vicende diverse, ma unite dall’unico denominatore della volontà europea di imporre a tutti i popoli e Paesi l’ideologia Lgbt come valore assoluto, hanno scosso la Polonia e la stessa Europa negli ultimi giorni. Due vicende che imporranno, si spera, un trasparente chiarimento tra i capi di Stato e di Governo al prossimo Consiglio Europeo di settembre.

Solo pochi giorni dopo le elezioni presidenziali in cui i polacchi hanno rieletto, nonostante pressioni internazionali inenarrabili, il presidente uscente e cattolico Andrzej Duda (vedi qui), la morsa della vendetta europea si è fatta sentire. La minaccia di tagliare i fondi europei ad alcune città del Paese, che avevano liberamente deciso di bandire dal proprio territorio ogni propaganda e insegnamento Lgbt, si è attuata con squilli di tromba e orgoglio mal posto. Con una tempistica sconcertante, degna del peggior regime sovietico del passato recente, la commissaria Helena Dalli, paladina dei privilegi Lgbt, ha annunciato il 29 luglio che sei città polacche non riceveranno i finanziamenti richiesti a causa delle loro scelte “discriminatorie”, che violerebbero i “valori europei”, nei confronti degli Lgbt (vedi qui). Ovviamente non si dice quali valori europei siano stati violati, visto che nulla nei trattati vincolanti per gli Stati membri riconosce privilegi particolari per l’ideologia Lgbt.

La scelta dei tempi della decisione presa a Bruxelles non è casuale e dimostra una deriva totalitaria e liberticida molto preoccupante. Infatti, nei giorni precedenti, il 26 luglio, il ministro della Giustizia polacco Zbigniew Ziobro aveva annunciato la decisione di proporre al Governo l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, nata in seno al Consiglio d’Europa, organizzazione peraltro distinta dall’Ue. Il suddetto documento - oltre a denunciare la violenza sulle donne - include diversi paragrafi a favore del gender, tant’è che alcuni Paesi, compresa la Russia, non hanno firmato. Molti altri Paesi (Armenia, Bulgaria, Liechtenstein, Lettonia, Moldavia, Repubblica Ceca, Regno Unito, Slovacchia, Ungheria, ecc.), inoltre, non hanno ratificato la Convenzione (vedi qui l’elenco completo).

Le reazioni all’annuncio polacco non si sono dunque fatte attendere. Mentre Marija Pejčinović Burić, nuovo segretario generale del Consiglio d’Europa, si è detta preoccupata ma anche disponibile a “chiarire ogni possibile fraintendimento o incomprensione” sul testo della Convenzione (vedi qui), dai banchi del Parlamento Europeo i Socialisti e i Liberali hanno sparato a zero contro la scelta del governo polacco (vedi qui).

A seguito delle proteste, con una mossa scaltra, il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, ha dichiarato il 28 luglio di aver incaricato la Corte costituzionale polacca di svolgere una valutazione sulla costituzionalità della Convenzione di Istanbul. La decisione, per nulla una retromarcia, metterà nelle condizioni il governo attuale di prendere atto della decisione della corte; e se questa, auspicabilmente, valutasse incompatibili i due testi (Costituzione polacca e Convenzione), ciò obbligherebbe il governo a rigettare la Convenzione di Istanbul e, contemporaneamente, eliminare il pericolo che i governi futuri possano implementarla nel sistema giuridico polacco.

Non è bastato però l’annuncio di Morawiecki a calmare gli animi europei. Infatti, il viceministro francese agli Affari Europei, Clément Beaune, ha minacciato gravi “conseguenze e possibili tagli di fondi del Bilancio dell’Ue” se la Polonia dovesse confermare la propria volontà di uscire dalla Convenzione (vedi qui). I tagli ai finanziamenti e la minaccia europea verso la Polonia, a cui si è unita il 30 luglio anche la presidente della Commissione Ursula von der Leyen con una dichiarazione in difesa dei “diritti Lgbt” (vedi qui), confermano che non solo la Convenzione di Istanbul è il grimaldello per l’introduzione dell’ideologia Lgbt nei Paesi europei, ma anche che il frequente richiamo ai valori europei consista di fatto solo in tale ideologia. Chiunque vi si opponga è soggetto a sanzioni pecuniarie e tagli di finanziamenti.

La Polonia manterrà le sue posizioni e convinzioni? Verrà rispettata dalle istituzioni europee (nel rispetto del principio cardine della sussidiarietà e dell’identità/competenza nazionale) l’autonomia di centinaia di municipi e comunità che hanno approvato le “Carte della famiglia”? Di certo, il presidente Duda, il governo e il partito di maggioranza PiS (insieme ad altri partiti di destra) non cederanno facilmente all’ennesimo abuso, grave e legalmente infondato, della Commissione Europea.