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La guerra sull'immigrazione manda a casa il governo olandese

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Dopo le dimissioni di venerdì scorso, il premier Mark Rutte ha ieri annunciato l'abbandono della politica. Aveva guidato il governo per 13 anni, ma si è arreso davanti alla spaccatura della maggioranza sui richiedenti asilo.

Esteri 11_07_2023
L'ex premier olandese Mark Rutte

Il Primo ministro più longevo alla guida di un governo europeo, Mark Rutte, si è dimesso venerdì scorso e annunciato ieri di lasciare definitivamente la politica nazionale e non ripresentarsi alle prossime elezioni di novembre. La drastica decisoone arriva dopo mesi di speculazioni sulla crisi della coalizione per le politiche agricole, causa delle proteste prima e della sonora sconfitta elettorale a favore del neo Partito dei contadini la scorsa primavera e ora in testa nei sondaggi elettorali.

La caduta del quarto gabinetto di Rutte, alla guida del governo ininterrottamente dal 13 anni, può essere fatta risalire soprattutto allo scorso novembre, quando il primo ministro aveva affrontato una rivolta dei deputati del suo stesso partito sulle politiche migratorie. Mark Rutte ha pensato in questi mesi di camuffarsi con abiti e discorsi degli odiatissimi Orban e Morawiecki, ma l’incoerenza non gli ha salvato poltrona, due partiti della sua coalizione lo hanno abbandonato e lui stesso ha dovuto uscire di scena definitivamente.

Il gruppo del VVD, guidato dall'ex assistente politica di Rutte, Sophie Hermans, lo scorso inverno minacciava di votare contro una proposta di legge che avrebbe dato al governo il potere di distribuire i rifugiati in tutto il Paese, anche contro la volontà di sindaci e consigli comunali locali. La misura era stata ritenuta urgente anche nel gennaio scorso, in seguito ai problemi di sovraffollamento del centro di accoglienza per richiedenti asilo Ter Apel di Groningen, verificatisi la scorsa estate.

Dopo l’ennesimo chiarimento interno, Rutte aveva ottenuto il sostegno del suo partito alla proposta di legge, ma solo a condizione di trovare un modo per limitare il numero di richiedenti asilo autorizzati ad entrare in Olanda. L’impegno a ridurre in modo consistente il numero dei richiedenti asilo era ribadito da Rutte ad ogni incontro di partito, dopo le allarmanti previsioni del governo che stimava nuovi 70.000 richiedenti asilo nel 2023.

Mentre Rutte mediava all’interno del suo partito, dove l’ala anti-immigrazionista cresceva sempre più, i partner di coalizione, il progressista-liberale D66 e i cristiani luterani della ChristenUnie, già da tempo avevano dichiarato la contrarietà a qualsiasi piano dell’esecutivo per limitare le richieste di asilo, in particolare per i partner e i figli di persone già rifugiate nei Paesi Bassi. Per ragioni diverse: il partito cristiano e protestante ribadiva l’importanza della famiglia, i liberal socialisti volevano riaffermare l’ideologia multiculturalista.

Non si deve dimenticare che il Consiglio di Stato aveva bocciato tutti i tentativi di limitare i ricongiungimenti familiari, affermando che ogni ipotesi in questo senso violava la legge olandese ed europea. I delegati del VVD ancora la scorsa settimana avevano accusato il premier Rutte di non aver mantenuto le sue promesse, e deciso di continuare ad appoggiare il governo solo a condizione di concludere un accordo di coalizione sull'immigrazione prima dell'estate.

I limiti della proposta di Rutte erano chiarissimi. Si creavano due classi di rifugiati, quelli che fuggono da persecuzioni personali e quelli che cercano rifugio da zone di guerra, concedendo meno diritti al secondo gruppo, compreso un limite al numero di ricongiungimenti familiari, favorendo così il possibile abbandono di bambini vulnerabili dei Paesi in guerra. A fronte del totale disaccordo nella coalizione lo stesso Primo ministro si è dimesso, venerdì 7 giugno.  

La sua dichiarazione di dimissioni è stata un atto di realismo: «Non è un segreto che i partiti della coalizione la pensino in modo molto diverso sulla politica di asilo e oggi purtroppo dobbiamo trarre la conclusione che le differenze sono incolmabili». Tuttavia, il motivo principale per cui il governo olandese è crollato venerdì è che Mark Rutte è stato incapace di guidare le divisioni interne al suo partito e alla sua coalizione. In questo senso è da interpretare la decisione annunciata ieri in Parlamento di non volersi ricandidare alle elezioni alla guida del suo partito VVD e di voler abbandonare la politica, dopo la nomina del nuovo esecutivo a seguito delle elezioni anticipate di novembre.

Sabato lo stesso Mark Rutte aveva presentato a Sua Maestà il Re, la lettera di dimissioni di tutti i ministri e segretari di Stato e, dopo un’ora e mezza di colloquio riservato con il sovrano, aveva dato adito a possibili elezioni anticipate nel prossimo autunno.

Gli unici vincitori, oltre ai paesi europei cristiani e conservatori, in particolare dell’est e del sud Europa, da sempre nel mirino dei governi presieduti da Mark Rutte, sono i partiti di destra e, in particolare il Partito dei contadini, assolutamente contrario all’ideologia e alle follie del “Green deal” europeo promosse da Rutte e dal Commissario olandese e leader dei Socialisti Europei, Franz Timmermans. 

La caduta e la conclusione della carriera politica di Rutte, sempreché non venga ricicciato in un qualche prestigioso incarico europeo, ha il sapore del contrappasso. Dopo essersi reso più volte protagonista di polemiche feroci contro Ungheria e Polonia, l’ultima e recentissima allo scorso vertice europeo del 30 giugno sull’immigrazione, Rutte si dimette per il proprio fallimento ed incapacità di trovare una via mediana alle nuove politiche migratorie del suo paese.



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