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dopo le rivolte

La Francia paga il prezzo del (fallito) sogno multiculturale

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Placati i disordini, si fanno i conti con le conseguenze del multiculturalismo. Le analisi differiscono, ma il fondamentalismo c'entra eccome, mescolato alla subbcultura delle baby gang presenti anche in Italia.

Editoriali 08_07_2023

Mentre la seconda rivolta delle banlieue sembra rientrare nei ranghi, è opportuno fare il punto della situazione su quanto finora è stato detto (e negato) nelle varie analisi di ciò che è accaduto in Francia. Da prospettive diverse, si è registrata una convergenza generale nel riconoscere il fallimento del multiculturalismo, che ha finito per produrre soggetti con un’identità contrapposta anziché amalgamata a quella nazionale. La diagnosi delle cause alla base del fallimento differisce naturalmente a seconda degli orientamenti politici. 

A sinistra, non hanno perso tempo nel riesumare il ritornello della “mancata integrazione” dovuta al razzismo intrinseco alla mentalità neo-colonialista prevalente nella società francese. La solita foglia di fico, insomma, volta a nascondere i limiti evidenti manifestati dal proprio stesso approccio paternalistico e assistenziale, che mentre contribuiva e non poco a generare nelle seconde, terze e quarte generazioni aspettative e rivendicazioni di natura socio-economica, ha mancato nel favorire l’accesso allo studio e al mondo del lavoro necessari a far sì che queste venissero soddisfatte, specie di fronte a una larga fetta della popolazione in costante aumento. Di qui, la frustrazione, il risentimento e la voglia di rivalsa che si sono sfogate nell’insorgenza urbana seguita alla tragica morte di Nahel, il 17enne algerino ucciso da un poliziotto.

Da altre parti, si è posto invece l’accento sull’impossibilità di integrare gruppi appartenenti a un’altra civiltà: pur essendo nati in Francia, si resta pur sempre di origini culturali diverse e, se non si realizza l’incontro con la cultura locale, la via che viene intrapresa è inevitabilmente quella dello scontro, caratterizzato anche da un crescente identitarismo etnico, che pone maghrebini e africani contro francesi ed europei. Su tale presupposto, la questione socio-economica non fa altro che aggravare una situazione già compromessa in partenza, specie se a frapporsi come ostacolo al realizzarsi dell’incontro sul piano culturale intervengono i soliti noti dell’identitarismo religioso islamista: Fratellanza Musulmana principalmente, come al solito, sebbene il salafismo radicale stia guadagnando terreno.

Non si tratta certo di dinamiche nuove o recenti. Sono bensì profondamente radicate, come dimostra l’insorgenza del 2005 ai tempi di Sarkozy. Successivamente, sono servite a mettere in moto il meccanismo della radicalizzazione a fini terroristici in nome di Al Qaeda e dell’Isis, che ha insanguinato la Francia con stragi e accoltellamenti, alimentando il fenomeno dei foreign fighters fino alla decapitazione del professor Samuel Paty il 16 ottobre 2020. 

Chiusa, per il momento, la fase del fervore jhadista a seguito della fine dell’esperienza dell’Isis in Siria e Iraq, si è riaperta quella dell’insorgenza urbana rivolta in particolare contro la lotta al “separatismo” intentata da Macron, come chance di ultima istanza per liberare il Paese dai nuclei di “Stato islamico” diffusi a macchia d’olio in tutto il suo territorio.

Bisogna diffidare di coloro che, su giornali italiani, affermano di credere che “l’elemento religioso non c’entri nulla con quanto sta accadendo in Francia”, puntando invece il dito sulle radici socio-economiche del problema. Si tratta di ben noti suprematisti islamisti, che continuano a servirsi della libertà di espressione che viene garantita loro per manipolare anche in questo caso le circostanze, pensando persino di riuscire ad accreditarsi come interlocutori presso il centrodestra, con la richiesta di “fermare gli sbarchi” contro la nuova escalation dell’immigrazione clandestina.

L’elemento religioso, in senso fondamentalista, c’entra eccome. Per quanto trap e hip pop, droghe e sigarette, siano “haram”, i Fratelli pragmaticamente non si fanno scrupoli nel mescolarsi con la subcultura da banda criminale di quartiere che contraddistingue i giovanissimi che hanno animato gli scontri e le devastazioni dei giorni scorsi. Operano sullo sfondo, avvalendosi anche di influencer e militanti sui social media, in modo da essere il punto di riferimento dei soggetti al centro delle loro attenzioni, allontanandoli sempre di più dal mondo “infedele” che li circonda. 

A giudicare dalla portata della sommossa e dall’organizzazione mostrata nel condurla, è improbabile che non si sia trattato di un attacco premeditato contro il governo centrale, di cui l’uccisione di Nahel è stata solo un pretesto, il casus belli per scatenare una violenza che si preparava da tempo.

L’atteggiamento definito da “far west” della polizia francese, di molto induritosi negli ultimi anni, e i difetti del modello laicista francese, che ha fornito alla propaganda e al discorso islamista varie argomentazioni da strumentalizzare, hanno contribuito a consolidare il sostrato su cui poi ha fatto leva il lancio dell’offensiva. Il fatto che i protagonisti siano stati degli adolescenti rende l’idea della spregiudicatezza dei mandanti.

Le baby gang che imperversano nel nord Italia sono di una pasta molto simile. Chissà a che cosa avranno pensato guardando sul telefonino le scene di guerra provenienti dalla Francia.



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