La formazione dei sacerdoti e i danni del progressismo
In un articolo sulla rivista Presbyteri, il professor Sergio Tanzarella sottolinea la decadenza dell’insegnamento nei seminari e offre suggerimenti nell’ottica di una “rivoluzione culturale”. Peccato che le soluzioni indicate sono già parte integrante del cattolicesimo progressista, che va avanti da decenni e che è all’origine della suddetta decadenza, deformando la missione del prete.
È uscito un interessante articolo sulla rivista di spiritualità pastorale Presbyteri (6/2021) dal titolo Tra la Bibbia e la storia: riformare la formazione teologica con una “coraggiosa rivoluzione culturale”. L’articolo è stato scritto da Sergio Tanzarella, professore di storia della Chiesa in varie istituzioni, tra cui l’Università Gregoriana, attento studioso del cattolicesimo progressista e con un’esperienza politica come deputato.
Tanzarella offre la sua valutazione sulla situazione attuale degli studi per i nuovi sacerdoti, partendo da un testo di Rosmini e passando per la sistemazione degli stessi studi fatta sotto san Pio X, una sistemazione che secondo lo studioso oggi mostrerebbe il fiato corto: “Un impianto ricco, direi quasi infinito, di materie e di esami, ma rigido nella loro suddivisione, frutto di una teologia deduttiva tesa a sistemare e spiegare ogni cosa e ad affermare il primato di una razionalità teologica rassicurante in grado di collocare ogni idea in una casella precisa, di offrire risposte anche senza domande”.
In realtà, dai tempi di papa Sarto gli studi seminaristici hanno conosciuto una rivoluzione interna che ne ha stravolto i contenuti, specialmente dopo i cambiamenti paradigmatici (nel senso di Thomas Kuhn) che sicuramente il professor Tanzarella conosce molto bene. Il professore poi critica la metodologia di insegnamento, ritenuta come unidirezionale e che poco tiene conto del modo di apprendere degli studenti. Qui si può essere anche d’accordo, sapendo che gli ultimi decenni hanno conosciuto una tale rivoluzione tecnologica che, se ben usata, può essere messa al servizio di nuovi modi di apprendere anche per i futuri sacerdoti.
Poi, ecco un’altra parte dell’articolo che lascia perplessi: “Il fondamento dell’impianto degli studi resta legato e ispirato all’universo del pensiero greco-ellenistico con una dovizia di corsi di ogni genere dalla filosofia dell’essere a quella della natura, dalla epistemologia alla antropologia filosofica e poi tutta la storia della filosofia dai presocratici al Novecento. Aristotele ed Hegel restano i pilastri di tutto. Nulla di male evidentemente. Resta però da dimostrare se tutto ciò sia veramente necessario e indispensabile per la teologia del presente e se contribuisca davvero alla formazione teologica e umana dei futuri presbiteri passare a memoria le prove dell’esistenza di Dio o trovar fondamento sulle elucubrazioni di un razzista come Hegel. A fronte di questa indigestione, preludio per un triennio teologico affidato ai trattati occorrono alcune considerazioni dirimenti. Innanzitutto, gli studenti di questi ultimi anni sono vittime di un analfabetismo storico, non funzionale ma totale, non vuoti di memoria ma assenza di elementari conoscenze storiche a cui si sovrappone una quantità di false notizie, fake news, ampiamente divulgate e rese verosimili, vieti luoghi comuni e artificiose leggende. La maggioranza degli insegnanti di teologia sembra ignorare questa condizione di completa assenza di storia e anche di coordinate geografiche degli studenti (assenza non certo diversa da quella della maggioranza dei loro coetanei universitari). Anche circoscrivendo cronologicamente una indagine al solo XX secolo il vuoto è totale”.
Qui certamente torniamo a considerare temi cari al modernismo, come quello delle modalità di incontro della religione con il pensiero moderno, un incontro che secondo i modernisti doveva essere molto più fiducioso rispetto a quello che suggeriva la prudenza e la saggezza della Chiesa di un tempo. Leone XIII insegnava che “la fede difficilmente può ripromettersi dalla ragione aiuti maggiori e più potenti di quelli che ormai ha ottenuto grazie a San Tommaso” (Aeterni Patris). È vero che l’insegnamento nei seminari mostra una forte decadenza, ma ciò succede perché si è abbandonata la retta via della dottrina cattolica e non perché, come afferma Tanzarella, “nulla invece si sa di Mazzolari, Dossetti, La Pira, Lazzati, Milani, Turoldo, Balducci, Bachelet”. A me sembra che molti - non tutti - di questi autori e alfieri di un certo cattolicesimo progressista sono stati spinti a più non posso a scapito di altri che secondo alcuni rappresentano la tanto esecrata “Chiesa preconciliare”.
Poi il professore lamenta l’ignoranza della storia, ma la sua critica manca il bersaglio: “Allora mancheranno gli strumenti per decifrare il presente, per comprendere i processi che sono in corso, per intendere la geopolitica mondiale, per organizzare una pastorale che usi un alfabeto comprensibile (…). La generazione che visse il Vaticano II e il post Concilio si impegnò a ripensarsi rispetto alla formazione ricevuta e ne venne fuori, pur dentro crisi profonde, molto spesso migliore. I seminaristi del presente che dovrebbero raccoglierne l’eredità non sono messi in grado, in questo vuoto di memoria e di formazione, di comprendere la priorità e la centralità dell’evangelizzazione e scivolano rapidamente nell’organizzazione devozionale, nella cura ossessiva della talare fino ad arrivare alla mozzetta e all’uso dei gemelli d’oro e all’acquisto di auto potenti. Preferiscono interessarsi allo studio degli angeli rispetto al contratto degli interinali o alla piaga endemica e purulenta del lavoro nero o alla tratta degli esseri umani. Il problema è che da lì a pochi anni non troveranno angeli nel territorio della parrocchia ma schiavi (sottopagati, senza previdenza, senza assistenza, senza permesso di soggiorno) ai quali annunciare la liberazione del Vangelo”.
Ecco che dalla storia si scivola come spesso accade nello storicismo. In realtà, se parliamo di ignoranza storica, bisognerebbe indicare i tanti che si fanno alfieri di una certa idea della riforma liturgica che non tiene conto dello sviluppo organico delle forme della celebrazione, difendendo un rito cangiante che esiste soltanto nelle loro fantasie inebriate proprio da quel pensiero progressista che Tanzarella sembra proporre come soluzione. E, poi, un prete non deve essere un animatore di comunità, un sociologo o un attivista politico, ed è bene che continui a studiare gli angeli e tutto il resto, perché tutto questo informerà la sua azione pastorale e non il contrario.
Poi, arrivano altri suggerimenti da parte di Tanzarella, nell’ottica di una “rivoluzione culturale”. Da storico navigato, avrà usato questa definizione con piena consapevolezza. Io, che ho tra i miei interessi la Cina, non posso certo ignorare i testi letti su quel periodo della storia cinese in cui Mao Zedong cercò, con l’aiuto della zelante moglie, di mantenere il potere scatenando la baraonda. In definitiva, quello che l’illustre docente propone è istituzionalizzare il cattolicesimo progressista e renderlo come l’unico modo attraverso cui vivere la fede, un esperimento che in ogni caso già va avanti da vari decenni con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.