La creazione, la paura, l’ecologismo
Riconoscere il dono della Creazione per instaurare un rapporto corretto con la natura. Pubblichiamo l'intervento di dom Giulio Meiattini alla Giornata della Bussola il 23 ottobre 2021.
Il mio intervento si pone all’incrocio di tre direttrici di pensiero, date dal tema e dalla cornice della presente giornata di riflessione:
-il tema della paura, che fa da filo conduttore di questa giornata di riflessione;
-la questione ecologica, data dall’intersecarsi dello squilibrio, che si ritiene prodotto dall’uomo, delle condizioni ambientali del pianeta terra e del tentativo umano di porvi rimedio;
-la teologia della creazione, come prospettiva di fede da cui ricevere, se possibile, qualche luce sulle relazioni fra i due precedenti argomenti.
La nostra riflessione non potrà prendere in esame l’integrale della relazione fra ecologia e teologia della creazione, ma solo l’angolo visuale specifico dato dal rapporto fra l’esperienza della paura e l’attuale questione ecologica. Che quest’ultima sia oggi fonte di paura e che una certa cultura green, di grande impatto mediatico e politico, cerchi di far fronte alla paura da catastrofe climatica (e anche cerchi di amplificarla) promuovendo un certo tipo di visione dell’uomo e della natura (tutta da verificare), lo diamo qui per presupposto. La fede nella creazione aiuta i credenti a guardare la galassia dell’attuale tema ecologico a partire da Dio, dalla sua rivelazione, dilatando gli orizzonti della loro razionalità e offrendo visuali complementari o, se necessario, critiche e alternative.
- Il peccato e la paura
La comprensione del mondo alla luce della fede nella creazione, sollecita il pensiero verso la questione dell’inizio, dell’origine delle cose. Dunque, viene naturale porsi la domanda: che rapporto c’è fra le origini del mondo creato da Dio, della creatura umana, e la paura? E come questo rapporto può rischiarare il modo di accostare il dibattuto tema ecologico?
Dalle prime pagine della Genesi veniamo a sapere che l’esperienza della paura fa la sua comparsa in conseguenza del peccato. Dopo che Adamo ed Eva ebbero mangiato del frutto proibito, conobbero la paura, derivante dalla scoperta di una loro vulnerabilità (l’essere nudi) che esisteva già prima, ma che non costituiva alcuna difficoltà: “Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (Gen 3,10). Lo squilibrio del peccato scatena la paura. Ascoltando san Paolo sembra che questa risposta sia confermata. Scrive l’Apostolo: “Non avete ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura” (Rm 8,15). La schiavitù imparentata alla paura, secondo l’Apostolo è chiaramente quella del peccato: “Non siete più schiavi del peccato” (Rm 6,7.20). Per Paolo, perciò, la schiavitù è prodotta dal peccato e porta con sé la paura, come conseguenza della perdita del rapporto di confidente familiarità con Dio.
Per essere più precisi, la schiavitù di cui parla Paolo è anche legata alla Legge: la Legge, pur essendo dono di Dio, ha una natura anfibolica nel pensiero paolino: essa rivela la condizione di peccato dell’uomo e lo accompagna (come “pedagogo”) verso la libertà, ma non ha il potere di renderlo libero. Anzi, essa è legata in strano modo al peccato: “Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge” (1Cor 15,56). Tanto che la liberazione dal peccato è, sempre per Paolo, anche superamento della Legge a favore della Grazia. Dunque la paura è una situazione antecedente (legata al peccato e alla Legge) dalla quale i battezzati vengono liberati, ma nella quale possono sempre ricadere, se non vigilano sulla loro libertà di figli di Dio (cf. Gal 5,1.13).
A questo punto la partita sembrerebbe chiusa: la paura nasce dal peccato, mentre la liberazione dal peccato, ottenuta dalla redenzione di Gesù Cristo, ci riscatta dalla schiavitù e dalla paura che vi è connessa. D’altra parte anche la storia del cristianesimo, secondo certe ricostruzioni non prive di fondamento, attesta un profondo legame – nella teologia, nella predicazione e nella spiritualità – fra la paura (della morte, del giudizio divino, della dannazione eterna, ecc.) e la rilevanza data al peccato (si vedano in proposito gli studi di Jean Delumeau). Ora, questa prospettiva non è sbagliata, ma ritengo che sia anche insufficiente.
Una risposta più profonda e adeguata intorno alle radici più profonde della paura deve guardare proprio all’origine del mondo e dell’essere umano da Dio Creatore. Le radici della paura o, meglio detto, le condizioni di possibilità ultime della paura, vanno cercate, a mio avviso, nella stessa creaturalità dell’uomo, in quanto esposta alla tentabilità. Questo, come si vedrà, senza nulla togliere alla bontà della creazione come opera divina, anche se l’immagine ingenua, universalmente diffusa, di quella che si suole chiamare innocenza edenica ne dovrà risultare, in qualche modo, corretta.
- Uno sguardo alle origini
Nel racconto biblico delle origini la creazione è considerata un gesto di generosità divina, un dono che Dio fa alla creatura umana, a sua volta donata a se stessa. E’ questo dono che costituisce il mondo e, in esso, l’essere umano. Ogni essere vivente e ogni frutto della campagna sono affidati all’uomo (cf. Gen 1,28-29). Questi, dunque, è ricco per natura, e anche sovrano di questa ricchezza, come dice dell’uomo un testo salmico: “Tutto hai posto sotto i suoi piedi” (cf. Sal 8,7-10). Tuttavia, questa posizione centrale e di supremazia non è una conquista e neppure un diritto, ma – appunto – un dono ricevuto, che aspetta e spera gratitudine e riconoscenza.
L’universo fisico, visto come dono di un Dio Creatore, possiede un valore simbolico, cioè è traccia di una provenienza e parla di una relazione cui l’essere umano non può sottrarsi. Il dono è “sim-bolico” di per se stesso, perché “dà a pensare”, cioè rinvia a un Donatore, e il suo valore non si misura solo col calcolo o l’utilità, ma in base al rapporto e al legame interpersonale di libertà entro il quale sussiste. Il dono è il “presente”, cioè segno della presenza di chi l’ha donato. Per questo ogni dono individua un patto, e il dono della natura creata è già una prima offerta di alleanza da parte di Dio all’essere umano.
Questo aspetto è decisivo per la nostra riflessione: la natura che è posta sotto ai piedi dell’uomo, non perde mai il carattere di dono, dunque è collocata all’interno di una relazione fra libertà finita e infinita. Questo possesso si mantiene come tale solo se è mantenuta la relazione di alleanza libera fra Donatore e donatario. E dove c’è libertà c’è storia, nel processo del dare, ricevere e restituire che contraddistingue tale alleanza. Questo scambio non ha un valore utilitarista e mercantile, ma si tratta di scambio simbolico. Esiste infatti uno scambio di doni di carattere simbolico (come da Marcel Mauss in poi l’antropologia culturale non ha cessato di mettere in evidenza) che ha come scopo (attraverso il dare, ricevere e restituire) di intessere un’alleanza, fra persone o fra gruppi sociali. Il rapporto dell’uomo con la natura non è dunque un rapporto immediato o chiuso in se stesso, ma si sorregge e si comprende su questo sfondo relazionale che lo collega a Dio sotto il profilo della donazione.
Qui emerge il ruolo dell’albero che sta al centro del giardino e che è interdetto alla prima coppia genesiaca. Col suo aspetto di limite, di proibizione, esso ha proprio la funzione di ricordare che il dominio sul giardino non è totale. Stendere la mano su questo albero che sta al centro e che ha che fare con la conoscenza del bene e del male (cioè con gli estremi massimi che definiscono e contengono la totalità e i capisaldi dell’ordine), significherebbe annullare il carattere di dono dell’essere, porsi come origine, invece che come originati o riceventi. “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare” (Gen 2,16-17).
In altre parole, quest’albero, che per la sua collocazione e per la sua natura, è come l’asse del giardino, il centro del mondo (omphalos), segnala la soglia oltre la quale il carattere di dono del mondo della natura sarebbe misconosciuto e violato, provocando la morte. La proibizione di stendere la mano per prenderne e mangiarne, sta a significare che Adamo dispone di tutto, ma non del principio e dell’origine di tutto. Come se Dio dicesse: “Tutto è tuo, ma ricorda che tu non sei il tutto”. All’origine, perciò, c’è simultaneità paradossale di dono e sottrazione, di accesso e di divieto. L’uomo potrà godere e possedere della natura donata, solo rispettando questo limite invalicabile. Un rispetto che è riconoscimento della sacralità e della trascendenza inscritta dall’atto creativo nel mondo.
In altre parole, alla creatura umana è chiesto di rinunciare a pensarsi autosufficiente e onnipotente nei confronti della natura, perché originariamente e indelebilmente ricevente. Potremmo anche dire, per meglio capire, che il frutto non disponibile è come la “decima” offerta a Dio di cui si parla nel libro del Levitico. Il senso dell’offerta della decima del raccolto era precisamente questo: rinuncio ad accaparrarmi tutto e riservo qualcosa per Dio, in memoria del fatto che anche quello di cui faccio uso è comunque suo, proveniente da lui e concesso a me.
Tradotta in termini metafisici, questa fenomenologia edenica del dono non vuol esprimere altro che la tensione dell’uomo fra l’essere, come sintesi di ogni ricchezza e possesso, e il nulla, origine di ogni povertà, assenza, contingenza. La povertà essenziale e ontologica della creatura umana (più radicale di quella morale) risiede nel fatto che tutto è e resta dono sospeso alla libertà di un Donatore. In linguaggio classico: Dio non solo conferisce l’essere alle creature, ma le mantiene e le sostiene permanentemente nell’esistenza con la sua generosa benevolenza.
Se il dono, come gesto di reciproca alleanza e ri-conoscenza / ri-conoscimento (re-connaissance), vive solo nella circolarità del dare, ricevere, restituire – perché solo nel gesto della restituzione il dono è davvero anche dato-ricevuto – ovvero richiede che si permanga nella logica della donazione (della “decima” come offerta cultuale e sacrificio), la creatura umana conserva il dono della natura finché questo dinamismo si mantiene, cioè finché essa non cessa di riconsegnare simbolicamente a Dio quanto riceve, rinunciando a violare il limite ontologico (l’albero interdetto è riservato a Dio). In questo scambio, in questo admirabile commercium, si apre la dimensione storica del rapporto fra Creatore e creatura, che prepara l’uomo ad accogliere il dono per eccellenza: il Figlio incarnato, la vita stessa di Dio donata in pienezza, che è l’admirabile commercium supremo fra umanità e divinità. In questa storia, che nel progetto pedagogico di Dio è evolutiva e progressiva, l’uomo è chiamato a crescere fino alla piena statura di Cristo. Ma è proprio in questa crescita che si apre la prova e la tentazione.
2. La fessura del nulla e la vertigine dell’angoscia innocente
L’umanità, nella sua originaria costituzione e nel suo evolvere storico descritti a grandi linee, si trova inevitabilmente su un crinale delicato, che potrebbe essere evocato facendo eco alle parole di Paolo: possedere come se non si possedesse, usare del mondo come se non se ne usasse appieno (cf. 1Cor 7,29-31). Ricevere tutto da una libertà sovrana non disponibile, significa vivere come sospesi, in bilico. E’ un camminare sulle acque, tutto si sorregge su un filo acrobatico: se guardo in basso, scorgo che ciò che ho in mano non mi appartiene, che mi sfugge, che sono chiamato a riconsegnare, a non fermare il flusso della donazione, ma a lasciare, mentre ne uso, che ritorni a Colui da cui mi giunge. Devo accettare di perdere per poter salvare. Nella creazione, uscita buona dalle mani di Dio, si scorge già in filigrana l’impronta della Croce e dunque della prova: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, chi invece perderà la propria vita la salverà” (Mt 16,25). Di questa delicata condizione l’albero interdetto è l’emblematica icona.
In questo equilibrio della relazione centrato sulla fiducia fra l’uomo e Dio, che racchiude il rischio della libertà, può sopravvenire la vertigine e affiorare l’istinto di afferrarsi al dono per non perderlo, di assicurarsi dal vuoto del nulla che vedo spalancarsi proprio all’interno del dono. Infatti, proprio al centro del dono che mi fa essere e che fa essere il mondo intero, c’è una fessura, la fessura del nulla che affiora paradossalmente all’interno della meraviglia della donazione e dello scambio reciproco dell’alleanza fra Creatore e creatura. Lì dove percepisco, nel limite della rinuncia permanente (il frutto proibito) a non essere l’origine, ma l’originato, e accetto di restare il perenne debitore di una grazia mai pareggiabile perché sempre mi anticipa e mi supera, lì è possibile sperimentare l’insicurezza, la paura, la vertigine, perfino l’angoscia. Quest’esperienza della vertigine e dell’angoscia è come nascosta e dormiente nello stato di innocenza, è una possibilità che Dio lascia aperta. E’ la natura costitutivamente tentabile dell’uomo, al cospetto della propria contingenza, come accade anche alla creatura angelica.
Dio non pone direttamente l’uomo in questa esperienza della paura e dell’angoscia ma lo pone in una condizione (quella del limite inscritto nel dono) in cui tale esperienza (come tentazione, non ancora come peccato) è possibile e, direi, inevitabile. Perché emerga alla coscienza l’angoscia di perdere il dono dell’essere e di diventare preda del nulla, perché possa affiorare l’istinto di assicurarsi del dono trasformandolo in possesso assoluto e sicuro, dominando la natura, è necessaria una torsione dello sguardo, un mutamento di prospettiva. Avviene, in certa modo, quanto è stato osservato dalla Gestaltpsychologie: la medesima figura che prima coglievo in un certo modo, adesso la vedo sotto un altro prospetto. Ciò che sperimentavo come condizione confortevole, ricca, meravigliosa, se mi soffermo sull’albero proibito (cioè sulla memoria della mia precarietà e dipendenza), appare improvvisamente come rischio pericoloso, persino insopportabile: il centro del mondo mi sfugge, non è disponibile, sono appeso al dono proveniente da un’altra libertà e ho paura di perderlo se lo offro di nuovo sia pur come “decima” richiesta.
Vedo allora la mia contingenza e impermanenza. Se in precedenza percepivo la bontà e la forza del dono e la bontà del Donatore, ora colgo la libertà abissale e indisponibile da cui il dono proviene. In altre parole intravedo l’abisso del nulla (perché la libertà ha sempre a che fare col “poter-anche-non-essere-così”, ma altrimenti). L’essere umano coglie il poter-non-essere nascosto nell’essere. Il dono galleggia sul nulla.
Questa torsione dello sguardo, questa perdita della semplicità originaria, può avvenire solo se l’occhio si fissa troppo in quel dettaglio – l’albero al centro del giardino – che in realtà rivela il fondo senza fondo della gratuità del dono e dell’atto creativo. Questo produce la vertigine e l’angoscia, prima del peccato e come condizione di tentazione. Questa fissazione avviene anche per la sollecitazione di una sorta di straniamento prodotto da una parola invidiosa: l’insinuazione diabolica. Le parole del serpente portano a distogliere lo sguardo dalla positività dell’insieme donato (alberi, animali, giardino) per fissarlo sul dettaglio impedito, sul punto cieco che rende possibile la visione. Una fissazione che induce a perdere le proporzioni dell’insieme e del movimento.
Sorgono, esplicite o anche non formulate, delle domande: e se quella libertà che mi si è aperta benevolmente mi si chiudesse in modo altrettanto imprevisto? Se il dono mi fosse sottratto? Se restituendolo lo perdessi? Se la fonte donatrice da cui tutto dipende si chiudesse? E’ una crisi di fede, il sospetto su Dio, che spinge a stringere la mano anche sulla “decima” riservata a Dio, presumendo di dominare per intero la natura, ed eliminando dal rapporto con essa la relazione al Creatore.
Questa esperienza di angoscia è ancora senza peccato, è il momento della prova che precede il peccato, prova che potrebbe condurre anche alla crescita della fede. Il non reggere a questa prova della fede, cercando di assumere il controllo totale sul creato e su se stessi, è la caduta. Vi è dunque un’angoscia e una paura definibili in senso metafisico, perché poggianti sulla costituzione creaturale ed ontologica dell’essere umano. Questa angoscia innocente, legata al marchio del nulla che la creazione porta inevitabilmente con sé, perché contingente, era già stata intravista e considerata di S. Kierkegaard. La libertà presuppone la possibilità, la possibilità il nulla, il nulla include l’angoscia. E’ questa angoscia innocente che rappresenta la condizione di possibilità del peccato come volontà di potenza sulla natura e sull’essere in totale. Ogni peccato ha la forma dell’immanentismo.
Anche Edith Stein ha descritto la prova della fede, e dunque l’esperienza del dolore e dell’angoscia, come condizione appartenente all’umanità innocente prelapsaria. Pur se costituita inizialmente nella giustizia e nella grazia della comunione con Dio, l’umanità era comunque chiamata a crescere verso la pienezza del Cristo e ogni dimensione di crescita nella fede e nella carità verso la trascendenza divina, include la “notte oscura”, come ogni cammino dalla vita di grazia ordinaria all’unione mistica.
3. Conclusione: problema ecologico e pseudo-soluzioni ecologiste
Abbiamo dunque colto la paura nelle sue più profonde radici. Se esiste una paura conseguente al peccato, esiste anche una paura (meglio dire un’angoscia) con cui l’uomo deve confrontarsi comunque, anche nell’innocenza. Questa angoscia innocente può portare al peccato, qualora per sfuggirle si scelga non la via della fiducia riconoscente verso il Creatore e Donatore, bensì la volontà di potenza che pretende di dominare l’essere in totale, anche la natura. Questa volontà di potenza, come tentativo di sottrarsi all’insicurezza e al rischio, alla dinamica del dono e della donazione fra libertà, se assecondata costituisce il peccato e disgrega il rapporto dell’uomo con se stesso e anche con la natura.
Il problema ecologico di cui oggi tanto si parla – sfruttamento sregolato delle risorse naturali, deturpazione dell’ambiente, inquinamento delle acque, dell’aria, della terra – deriva dallo smarrimento del senso del limite inscritto nella gratuità del dono che sta nel cuore dell’atto creativo, cioè dal volersi impossessare della riserva di indisponibilità rappresentata dal frutto dell’albero al centro del giardino. Ciò si traduce nello strapotere della tecnica, cieca alla dimensione simbolica e sapienziale della natura creata, che rimanda a un Donatore trascendente, e interessata solo a quella immanente, quantitativa e utilizzabile.
Tuttavia, anche il tentativo di voler risolvere questi problemi, generati dallo sregolato potere umano e tecnologico, appare ancora tutto soggetto alla medesima mentalità e cultura tecnocratica che li ha generati. Dopo aver provocato dei danni al pianeta o dopo aver affermato, a torto o a ragione, che il futuro dell’ambiente e persino la sopravvivenza umana è in pericolo per cause antropiche, i rimedi che si suggeriscono sono ancora tutti e soltanto antropici. Il pensiero main stream pensa di poter interpretare e risolvere il problema ecologico solo in base a puri calcoli scientifici e ad altre innovazioni della intraprendenza tecnicologica, solo più raffinata e “pulita” rispetto al passato (la cosiddetta “conversione ecologica”).
Al fondo di questo modo di pensare, di questa cultura “verde” ed ecologista, sia pur portatrice di un’istanza legittima, c’è però ancora il medesimo errore che ha provocato i danni ovvero il presupposto che l’essere umano abbia il potere di manipolare la natura migliorandola, dopo averla manipolata deturpandola. Come se fosse nella disponibilità umana, per esempio, riequilibrare il sistema complesso del clima, grazie alle risorse della tecnoscienza. In ambedue le prospettive (sfruttamento e salvezza del pianeta) è all’opera il presupposto che la natura non faccia parte di un flusso di donazione fra Creatore e creatura, non sia abbracciata e dipendente da un rapporto di alleanza fra Libertà divina e umana, ma sia riducibile a semplice insieme totalmente controllabile.
Non si riesce a vedere quello che invece vede la fede nella creazione: che la natura è, nel suo nucleo più profondo, indisponibile al controllo umano (vi riposa un vestigium divino) e che la possibilità di fruirne in una relazione equilibrata è basata sul principio opposto: la rinuncia al dominio totale, la “decima” riservata a Dio, in una parola il culto. Quest’ultimo trasferisce le sorti ultime della natura dalle mani dell’uomo (scienza e tecnica) alle mani di Dio (sapienza e virtù). I due piani dovranno certo essere articolati e coniugati reciprocamente nella differenza complementare, ma nel chiaro rapporto di dipendenza del primo rispetto al secondo, della scienza verso la sapienza della fede, della tecnica verso la virtù.
Possiamo dunque affermare, in conclusione, che alla radice sia del cosiddetto problema ecologico sia dei progetti ecologisti che vorrebbero risolverlo, c’è il medesimo “peccato originale”, che consiste nel volersi assicurare con mezzi propri contro la prova della paura e dell’angoscia metafisica innocente, invece di affrontarla e superarla con l’atto della fede che riconosce il Creatore e il limite da lui posto. Ogni volta che, al contrario, prevale la scelta dell’autoassicurazione onnipotente, si perpetua la colpa madre.
Ora, questo tentativo di assicurazione totale può rivestire, oltre alle sembianze della tecnoscienza, che si fa istanza ultimativa sfociando nella tecnocrazia, anche quelle della magia. Per magia intendo il ricorso a formule, oggetti, pratiche, riti che riescano ad attivare energie, forze, meccanismi, dinamiche che non necessariamente fanno riferimento a esseri spirituali sovraumani. In questo senso c’è una differenza fra magia e religione. Nel Rinascimento, intellettuali come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola ebbero una concezione della magia molto affine alla scienza. Sappiamo, inoltre, che il passaggio dall’astrologia all’astronomia, dall’alchimia alla chimica, cioè dal mondo magico ed esoterico a quello della scienza sperimentale moderna, è stato graduale e lento e che i due approcci hanno intrattenuto a lungo delle sottili contaminazioni, sottintendendo ambedue una capacità di agire sul mondo fisico in base a delle tecniche operative. E sappiamo anche che i maggiori scienziati fra ‘500 e ‘700 erano spesso cultori e lettori dei testi ermetici, alchemici e astrologici.
La scienza/tecnica, non in se stessa, ma se non correlata e inserita in un orizzonte simbolico-sapienziale come quello offerto dalla fede nella creazione, acquisisce alla fine caratteri magici e, come la magia, cerca di impadronirsi del segreto, del meccanismo, della forza su cui fare leva per dominare la natura e trasformarla. Ambedue sanno bene del rischio che corrono: le forze che si vogliono catturare potrebbero sfuggire di mano, se si commette un errore. Nel rito magico o nell’esperimento scientifico l’apprendista stregone potrebbe soccombere. Ma magia e tecnoscienza autoreferente, vivono della convinzione che se il rito o l’esperimento vengono condotti senza errori, in maniera corretta, l’effetto sarà quello atteso. Si tratta di due versioni diverse del medesimo tentativo di superare la paura creaturale, evitando di posizionarsi sul piano della fiducia verso Dio e ricorrendo, in alternativa, al meccanismo risolutorio della “formula”, magica o matematica.
Che oggi si venga spesso indirizzati verso la riscoperta di pratiche e credenze magico-ancestrali, per recuperare l’armonia con la natura, o si confidi nella capacità dell’uomo di controllare l’andamento climatico programmando esattamente le politiche energetiche, ci troviamo sempre davanti a tecniche che dimenticano che il rapporto con la natura è sempre mediato dal rapporto col Dio creatore e dal suo dono libero e provvidente. Coniugare l’approccio scientifico con quello della fede nella creazione, sfuggendo così la deriva magica, resta perciò il primo e fondamentale compito per una corretta interpretazione dell’attuale problema ecologico, il principio e fondamento per una ecologia che si voglia davvero definire “integrale”.
+ OSB, Abbazia di Noci (BA)