La bufera sulla figlia di Totti fa il gioco dei colpevoli
La scelta di Gente di mettere in risalto i glutei della piccola Chanel non poteva passare inosservata, ma di queste e di immagini anche peggiori sono piene le spiagge, le tv e i rotocalchi. L'episodio svela così il gioco ipocrita grazie a cui ormai tolleriamo la sessualizzazione dei piccoli, ma anche la forza della parola che può smascherarlo.
-LA DEONTOLOGIA? NON VALE PIU' di Ruben Razzante
Di bambine dai 10 ai 14 anni con i glutei scoperti da costumi provocanti sono piene tutte le spiagge italiane. Ma anche in strada non si scherza: top e shorts attillati da cui escono natiche infantili sono un must per le ragazzine che si muovono in gruppo mentre commentano su Instagram le immagini dei loro "influencer" che non li mollano mani, neppure mentre vanno in bagno. E così, se il pudore (la consapevolezza del corpo come un tempio prezioso da custodire) pare scomparso da quando la minigonna e il bikini sono diventati la norma, sebbene a ridosso della rivoluzione sessuale facesse meno impressione vedere una donna in abbigliamento provocante rispetto ad una bambina, all'epoca dei social anche il tabù dei bambini è stato infranto. Allora perché quando la rivista Gente ha deciso di pubblicare la foto in costume di Chanel, la figlia tredicenne di Francesco Totti e di Ilary Blasi, si è scatenata una bufera di polemiche?
Certamente la scelta di mettere esplicitamente in risalto il fondoschiena della piccola Totti (immortalata con il padre), oscurandone il volto per poi definirla bellissima, non poteva passare inosservata, ma cosa sarebbe successo se la stessa fotografia fosse apparsa solo all'interno del giornale e fosse stata accompagnata da un titolo neutro come “Totti in acqua con la figlia” anziché da quello “Chanel Totti. È la gemella di mamma Ilary”? Probabilmente in pochi avrebbero battuto ciglio, perché appunto di ragazzine così (s)vestite sono pieni i lidi di tutto il mondo e le famiglie della maggioranza dei vip. Basti pensare a Kaia Gerber, la figlia di Cindy Crawford, che a 13 anni finì sui giornali con un micro-costume o ad Aurora Ramazzotti immortalata alla stessa età di schiena mentre si tuffava nelle acque di Miami senza che nessuno abbia gridato allo scandalo, dimostrando per altro che la regola che vieta ai giornalisti di alimentare la curiosità morbosa in situazioni prive di rilievo pubblico è ignorata da tempo.
L’episodio dimostra quindi l’ipocrisia di una cultura in cui attori, soubrette, calciatori e la maggioranza degli adulti, abituati a vedere o mostrare ogni parte del loro corpo, per business o per semplice vanità, si scagliano contro i capri espiatori che commettono l’errore di essere troppo espliciti. Perché è anche promuovendo la nudità femminile in ogni salsa che si favoriscono la sessualizzazione infantile e la mercificazione dei corpi dei piccoli che ci imitano più o meno coscienti. Chanel indossava infatti un costume inadatto non solo alla sua età ma anche a quella di qualsiasi donna. Senza entrare nel merito delle scelte della Blasi non è possibile non accorgersi della contraddizione di chi mostra e permette ai piccoli determinati stili di vita per poi prendersela se qualcuno punta il dito proprio lì.
I Totti hanno chiesto il ritiro delle copie con in copertina la figlia e hanno accusato la direzione della rivista di sessualiazzazione dell’infanzia e di «mercificazione del corpo delle adolescenti». Siamo d’accordissimo con la famiglia perché nessuno va sbattuto sulle pagine dei rotocalchi a sua insaputa, tanto più se si tratta di un minore che probabilmente starà soffrendo per l'accaduto, ma se davvero si vuole combattere questa cultura che permea, magari più subdolamente, quasi tutti i giornali (ricordate Vogue qui e qui?) bisognerebbe chiedere ai Totti perché non si sono preoccupati anche degli sguardi che Chanel avrebbe potuto attirare, sia pur in buona fede, su di sé in spiaggia apparendo in quel modo: che cosa cambia infatti nel mostrare in pubblico i glutei scoperti di una ragazzina dal vivo o in foto? Forse il numero degli "spettatori", ma la vera differenza è che nel primo caso si può far finta che nessuno guardi, mentre nel secondo l’immagine unita al titolo fa emergere con chiarezza ed imbarazzo l’immoralità di ciò che ormai abbiamo già digerito da un pezzo e per cui nulla può più essere vietato, nemmeno ai bambini. Ovviamente a patto che non si chiamino le cose con il proprio nome, perché altrimenti l’assuefazione perderebbe di potenza costringendo a porre dei limiti, innazitutto a noi stessi, per tutelare i più piccoli.
Quanto è accaduto svela così l’ipocrisia grazie a cui la pedofilia si fa largo silenziosamente allenando i nostri cervelli ad accettare determinate immagini come se nulla fosse, ma mostra anche la forza della parola che rende il male esplicito, scuotendo innanzitutto chi si è abituato a fare finta di nulla. Anche (s)vestendosi e ispirando un gran numero di minorenni senza riuscire a comprendere che gettare la colpa su una sola rivista serve unicamente a sminuire la portata di una mentalità che riguarda tutti. Anche i commentatori che si sono stracciati quelle vesti che spesso preferiscono non indossare.