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SIRIA

Kobane è libera, ma il Califfato avanza ancora

I curdi liberano Kobane, la città della Siria settentrionale. Per i combattenti curdi si tratta di una grande vittoria simbolica contro gli jihadisti. Ma nell'economia complessiva del conflitto, hanno strappato al Califfato solo l'1% del suo territorio. Mentre altrove si espande.

Esteri 28_01_2015
Curdi vincitori a Kobane

La notizia che i curdi sono riusciti a respingere fuori dall’abitato di Kobane le milizie dello Stato Islamico costituisce una vittoria simbolica, forse più politica che militare, utile comunque a dare un segnale che quasi sei mesi dopo l’avvio delle operazioni della Coalizione internazionale qualcosa si muove per davvero nel conflitto contro i jihadisti di Abu Bakr al-Baghdadi.

Meglio però evitare facili entusiasmi. I curdi hanno annunciato lunedì la liberazione “totale” di Kobane, al confine tra Siria e Turchia dove avrebbero ucciso decine di miliziani inclusi moltissimi giovani arruolati dallo Stato Islamico per rimpiazzare le perdite subite in questi mesi. I jihadisti infatti costituiscono, secondo i curdi, la gran parte dei circa 1.600 morti nella battaglia per la città.

Il successo curdo è però strettamente legato al concentramento di raid aerei, per lo più statunitensi, sulle postazioni jihadiste in città e nelle retrovie. “Ora inizieremo l’offensiva per la liberazione dei villaggi introno a Kobane” ha detto Rdiru Khalil, responsabile della comunicazione dell’Ypg (le unità di difesa del popolo curdo) parlando ad al-Arabiya mentre i comandi statunitensi si dimostrano più cauti.

Un portavoce del Dipartimento di Stato ha sostenuto che le forze curde, appoggiate dalla Coalizione internazionale, hanno fatto progressi, ma ha precisato che “Kobane resta contesa”. Il Central Command statunitense ha confermato l’arretramento delle forze jihadiste a Kobane riferendo che ora le forze curde “controllano il 90% della città” siriana e sottolineando che la “lotta contro l’IS è tutt’altro che finita”.

L’impressione è che curdi e iracheni abbiano bisogno di ingigantire vittorie tattiche, conseguite solo grazie al supporto aereo statunitense e alleato, per galvanizzare le truppe e le milizie irregolari mobilitate per la grande offensiva su Mosul ritenuta da molti ormai imminente.

In questo contesto va forse interpretato un altro proclama di vittoria annunciato sempre lunedì dal comando iracheno che ha reso noto di aver cacciato i jihadisti dalla provincia nord orientale di Diyala, riconquistata soprattutto grazie dalle milizie sciite Badr appoggiate da consiglieri militari, armi ed aerei iraniani. Il capo della polizia della provincia, generale Jamil al Shamry, ha annunciato ad al-Arabiya la “liberazione di 24 villaggi e degli ultimi 50 chilometri quadrati che erano ancora sotto il controllo dei jihadisti”.

In realtà, come ha ammesso nei giorni scorsi il Pentagono, dall’inizio delle operazioni aeree della Coalizione lo Stato Islamico ha perduto 700 chilometri quadrati di territorio in Iraq, vale a dire meno dell’1,5% dei 55.000 chilometri quadrati conquistati nel 2014. La percentuale potrebbe essere un po’ più alta dopo i recenti successi nella provincia di Diyala e nell’area del monte Sinjar, dove i curdi sono ormai in vista della periferia di Mosul, ma in ogni caso il grosso del lavoro di riconquista del territorio iracheno è ancora da compiere.

In Siria poi le cose vanno ancor peggio dal momento che lo Stato Islamico continua ad avanzare nel centro del Paese puntando verso Damasco mentre a sud e a nord sono i qaedisti del Fronte al- Nusra ad allargare le aree sotto il loro controllo a spese dei gruppi insorti definiti “moderati”.

Implicitamente il Pentagono ha riconosciuto lo scarso impatto avuto finora dallo sforzo bellico della Coalizione il cui limitato impegno bellico rafforza i dubbi di quanti vedono forti ambiguità nella lotta che americani e arabi dicono di voler condurre contro il Califfato.

“Si tratta di una percentuale minima” ha ammesso il contrammiraglio Kirby, portavoce del Pentagono, riferendosi ai territori iracheni riconquistati. Ma lo Stato Islamico “è ormai molto più sulla difensiva e vediamo che non stanno più cercando di conquistare nuovo territori” ma solo di “proteggere le loro vie di comunicazione”.

Ormai l’Isis “recluta bambini per combattere o per compiere attentati suicidi, ciò che potrebbe significare che hanno problemi di organici” ha aggiunto Kirby anche se nei giorno scorsi notizie d’intelligence avevano riferito l’afflusso a Mosul di almeno 50 mila combattenti jihadisti pronti a difendere la città. Un numero che certo non induce a ritenere che il Califfo abbia carenza di truppe.

I jet alleati hanno effettuato quasi 2mila incursioni in 5 mesi (i raid sull’Iraq sono iniziati l’8 agosto, quelli sulla Siria il 23 settembre) mentre gli ordigni lanciati sarebbero circa 6mila. Gli ultimi dati ufficiali risalgono al 31 dicembre con un bilancio per la Coalizione di oltre 5.000 bombe e missili impiegati per colpire oltre 3.000 obiettivi, tra cui 58 carri armati, 52 bunker, 673 postazioni di combattimento e oltre un migliaio di edifici. Al 2 gennaio Washington aveva speso per l’operazione “Inherent Resolve” 1,2 miliardi di dollari, in media 8,2 milioni al giorno, 246 al mese.

L’ammiraglio Kirby ha valutato la settimana scorsa che l’IS abbia inoltre perduto “milioni di dollari” di introiti petroliferi grazie ai bombardamenti della coalizione e ha problemi a ricostituire i suoi stock di veicoli. La stampa araba, però, non sembra condividere la visione cautamente ottimistica del Pentagono o quelle trionfalistica di curdi e iracheni.

Il quotidiano panarabo Al Sharq al Awsat, pubblicato a Londra, ha confermato che i miliziani dello Stato Islamico e del Fronte qaedista al-Nusra stanno conquistando terreno in Siria e persino in Libano dove avrebbero il controllo del 4% del territorio nazionale e si appresterebbero a proclamare il Califfato.

Il giornale cita diversi abitanti di Arsal, città libanese a ridosso della frontiera siriana dove “dettano legge” i due gruppi jihadisti e dove l’esercito libanese ha subito severe perdite nel tentativo di ricacciare i jihadisti oltre confine e dove l’IS ha già avvisato gli abitanti di obbedire ai dettami della sharia.

In lieve arretramento in Iraq ma in espansione in Siria, Libano e Sinai egiziano (e persino in Libia) il Califfato sembra godere ancora di ottima salute ed esiste il rischio che possa presto far notare la sua presenza anche in Turchia, Giordania e Arabia Saudita.