Joshua Wong: Hong Kong è un esperimento, l'Italia stia attenta alla Cina
Joshua Wong, attivista di Hong Kong, non è potuto venire in Italia. L'Alta Corte gli ha impedito di uscire dalla città. La sua testimonianza, in collegamento video, a Milano, non è solo la descrizione di una rivoluzione priva di leader, ma è anche un monito per l'Italia: attenti a non essere troppo dipendenti economicamente dalla Cina.
Joshua Wong, attivista honkonghese per la democrazia, non è potuto venire in Italia. Era atteso per un ciclo di conferenze a Milano e a Roma, nell’ambito di un più ampio giro europeo, ma l’Alta Corte di Hong Kong gli ha negato il permesso. Le ragioni espresse dai giudici hanno dell’incredibile, nella sentenza si legge che “le circostanze sono mutate” rispetto a quando Wong era libero di uscire e adesso farebbe meglio a restare in città invece che “prodigarsi in sforzi all’estero per aiutare Hong Kong”. “Per me è come una punizione aggiuntiva prima che sia provata la mia colpevolezza” aveva commentato l’attivista la settimana scorsa.
A Milano, comunque, è comparso ieri in collegamento video alla sede della Fondazione Feltrinelli, dove avrebbe dovuto essere relatore. Giovanissimo (ha 23 anni adesso, ne aveva 18 quando divenne leader della prima “rivoluzione degli ombrelli”), nonostante l’ora (erano le 4 del mattino a Hong Kong quando si è collegato all’Italia), Joshua Wong ha spiegato, prima di tutto, di non essere il leader della protesta. Perché, semplicemente, non ci sono leader in questa protesta. “Sono stato arrestato per otto volte, sono stato per tre volte incarcerato, il più giovane rappresentante del Consiglio è stato licenziato e incarcerato… dopo tutte queste esperienze di cinque anni fa, gli honkonghesi hanno imparato la lezione. Hanno capito che non potevano esporre un unico leader identificabile alla persecuzione politica”. “Quando i miei interlocutori europei non capiscono come possa esistere un movimento senza leader e mi chiedono chi ci sia dietro, le mie risposte sono tre: tecnologia, fiducia e autogestione”.
Proprio perché l’organizzazione è a rete, la mobilitazione è quasi immediata, i materiali vengono raccolti in brevissimo tempo e in grandi quantità, la flessibilità è massima e l’identità di chi protesta è coperta. “Abbiamo più di un centinaio di coordinatori, che sono responsabili della comunicazione, dell’organizzazione delle proteste, consulenza legale, attivismo internazionale”. Ci sono due caratteristiche fondamentali di un movimento privo di leader: “La prima è l’uso estensivo delle app per chattare con gli smartphone, per comunicare e coordinarsi, condividere informazioni sul campo in tempo reale, trovare percorsi alternativi in pochissimo tempo in caso di reazione della polizia”. Il coordinamento è reso possibile da una comunanza di vedute: “la fiducia è un fattore importante. E’ vero che ci saranno sempre punti di vista divergenti a livello tattico, ma ci sono alcune linee guida incontestabili: veder realizzate le cinque domande (ritiro della legge sull'estradizione, indagine indipendente sulla polizia, liberazione dei prigionieri politici, non considerare le proteste come "ribellione" e suffragio universale, ndr), evitare di essere arrestati, ottenere l’appoggio delle masse. Abbiamo sofferto molta violenza della polizia negli ultimi cinque mesi: più di 5mila persone sono state arrestate, più di 10mila lacrimogeni e proiettili di gomma sono stati sparati, gli stupri nelle centrali di polizia hanno causato almeno una gravidanza di una ragazza. La nostra determinazione a combattere per le nostre richieste politiche, fermare la brutalità della polizia e ottenere la democrazia, crea solidarietà”
E la solidarietà si è potuta misurare nelle ultime elezioni locali: “La loro importanza è nell’affluenza da record. I cittadini, nella prima occasione che hanno avuto di esprimersi, hanno mostrato tutta la loro sfiducia nei confronti degli esecutori della politica di Pechino. Mentre i partiti pro-Pechino erano finora la maggioranza assoluta, dopo il voto i candidati pro-democratici hanno ora l’85% dei seggi. La gente di Hong Kong, a gran maggioranza, chiede democrazia e chiede conto delle azioni della polizia”.
Joshua Wong non nasconde la sua delusione per la politica del nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio: “Non vogliamo interferenze in questioni di altri Paesi, ha detto da Shanghai. Questa è la tipica attitudine del ‘non nel mio cortile’”. Eppure… “Hong Kong dovrebbe servire come lezione anche all’estero: noi vediamo da vicino quali siano le intenzioni del regime di Pechino, che ha conquistato una completa egemonia sulla nostra economia negli anni scorsi. Ora siamo troppo dipendenti dalla Cina continentale. L’Italia deve stare attenta a non dipendere troppo dagli interessi economici cinesi. L’iniziativa della Nuova Via della Seta serve a Pechino per acquisire maggior influenza sull’Europa, in cambio vuole qualcosa. Nel mondo, nessun pasto è gratis”.