Jan Palach, la torcia umana che aveva a cuore la libertà
Cinquant’anni fa, il 16 gennaio 1969, lo studente universitario Jan Palach si dava fuoco in piazza San Venceslao a Praga. Un gesto radicale di protesta contro la repressione della Primavera di Praga e l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe comuniste. Da allora si svilupperà nella società ceca e in altri paesi sovietici un’idea che caratterizzerà i due decenni successivi: il dissenso.
Cinquant’anni fa, il 16 gennaio 1969, lo studente universitario boemo Jan Palach si dava fuoco in piazza San Venceslao a Praga. Aveva vent’anni e studiava filosofia all’Università Carlo IV. Un gesto radicale di protesta contro la repressione della Primavera di Praga (il timido tentativo di riformare il sistema comunista dall’interno guidato da Dubček) e l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia avvenuta nell’agosto del 1968.
Ciò che stava a cuore al giovane studente era soprattutto la libertà di espressione e a tal fine chiedeva la fine della censura sulla stampa. Nei tre giorni che precedettero la sua morte, Palach rimase lucido esprimendo la soddisfazione per l’eco internazionale che il suo gesto estremo aveva suscitato ma allo stesso tempo l’auspicio che esso non venisse emulato. Invece altri giovani nelle settimane successive lo seguirono, anche se il regime riuscì ad attutire gli effetti di questi atti sull’opinione pubblica internazionale.
Alcuni testimoni italiani - da Angelo Maria Ripellino a Enzo Bettiza - ebbero modo di descrivere l’atmosfera che si respirò a Praga nei giorni successivi. La capitale in gran parte paralizzata ed attonita si interroga con angoscia sul da farsi: era in fondo questo lo scopo ultimo di Palach, risvegliare le coscienze. La Chiesa cattolica praghese celebra il 24 gennaio una Messa solenne in memoria del giovane, malgrado questo fosse di confessione riformata e morto suicida. E il giorno dopo il funerale, al quale partecipano circa un milione di persone vestite a lutto. Un evento eccezionale anche perché la sua gestione viene affidata dalle autorità comuniste agli studenti: polizia ed esercito seguono a distanza l’avvenimento, le autorità politiche sono assenti e i soldati russi ancora presenti nel paese rimangono invisibili nelle caserme. I giovani vorrebbero seppellire Palach nel cimitero degli eroi cechi ma questo non viene loro concesso.
Jan Palach, un martire della libertà, quindi. Eppure dall’altra parte della Cortina di ferro, nei paesi occidentali attraversati nel medesimo periodo da poderosi movimenti di protesta e di liberazione, il giovane praghese non diverrà mai un’icona. Ciò che nel 1968 era cominciato a Praga con modalità sociologiche simili a quelle delle città occidentali ‒ la cultura underground, la musica rock, gli hippies… ‒ cominciava a prendere una strada diversa. Se l’istanza di fondo era simile ai movimenti sessantottini occidentali (il rifiuto di una società incapace di essere all’altezza dei propri ideali e ipocrita dal punto di vista morale), qui l’avversario non è costituito da una borghesia che ha fatto proprio il sogno consumista pur continuando a richiamare ipocritamente il rispetto di valori tradizionali.
A Praga e in altre città europee oltrecortina l’avversario è il regime comunista, vale a dire un sistema figlio di una rivoluzione che, nelle sue intenzioni originarie, intendeva fondare un nuovo ordine economico, culturale e morale rompendo con ogni tradizione precedente. I sessantottini praghesi non ripongono più alcuna speranza in una prospettiva simile. Si tratta di una consapevolezza che emerge gradualmente e non senza conflitti, ma che trova un grande stimolo ad affermarsi a partire dalla grande disillusione dei tentativi riformisti di Dubček e compagni.
In seguito al gesto estremo di Palach si sviluppa nella società ceca e in altri paesi comunisti un’idea che caratterizzerà i due decenni successivi, quella del dissenso. Non si tratta di una novità assoluta: fenomeni di dissenso li troviamo già nel periodo post-staliniano in URSS e in altri paesi oltrecortina. Il dissenso trova però a Praga un humus particolarmente fertile nel quale radicarsi, un terreno prodotto da secoli di lotte per la difesa dell’identità nazionale all’interno di un contesto politico e culturale decisamente mitteleuropeo. Praga è una capitale asburgica e allo stesso tempo da secoli zona di confine tra cultura germanica, latina e slava, tra cattolicesimo, ortodossia e chiese riformate. L’esperienza del dissenso si sviluppa all’interno della consapevolezza non comune della sfida che accomuna tutti gli europei al di qua e al di là della Cortina di ferro.
Questo si può verificare nell’opera e nel pensiero dei protagonisti del dissenso ceco, in particolare di Charta 77. Uno dei primi tre portavoce di questo movimento fu il grande filosofo Jan Patočka ‒ allievo di maestri della filosofia europea quali Edmund Husserl e Martin Heidegger ‒ conosciuto anche come il Socrate di Praga a motivo del martirio da lui subito in seguito alla persecuzione della polizia politica. A giudizio di Patočka il senso del dissenso non è innanzitutto politico. I dissidenti erano convinti infatti che essi non avrebbero mai visto la fine del comunismo e nemmeno i loro figli. Il senso del dissenso è innanzitutto morale e coincide col rifiuto di continuare a vivere nella menzogna ideologica imposta dal regime e di cercare di vivere sin da subito “nella verità”. Da questo punto di vista l’appello drammatico di Palach non rimase inascoltato. Una vita nella verità che si articola praticamente attraverso le strutture provvisorie e precarie della polis parallela (le scuole e le università volanti, il circuito delle pubblicazioni del samizdat, le reti di solidarietà con i disoccupati e i perseguitati…).
La tesi paradossale sostenuta dai dissidenti nei paesi comunisti è che la questione fondamentale è identica per tutti gli europei al di là dei diversi gradi di libertà e di benessere. Anche gli europei che abitano i paesi liberi e democratici infatti si trovano coinvolti in una società che li spinge sempre più a non vivere all’altezza delle esigenze e delle evidenze della vita. Emerge dall’esperienza del dissenso ceco la consapevolezza che le società capitaliste liberal-democratiche e le società comuniste non sono che le due figlie litigiose di una modernità che ha cercato di fondare la convivenza umana sull’oggettivismo della scienza e della tecnica e delle procedure impersonali, relegando nell’oscurità della dimensione privata ogni tipo di fede e di coscienza morale. In entrambi i casi l’esito è il nichilismo, l’anomia e l’insensatezza, il male di vivere.
Ciò che in ultima istanza differenzia il Sessantotto praghese dagli analoghi fenomeni occidentali sta nella consapevolezza della necessità non di spezzare definitivamente ma bensì di recuperare i fili delle tradizioni culturali e spirituali europee che si radicano nell’antichità e nel Medioevo. Non allo scopo di una restaurazione ma di una riproposizione degli interrogativi radicali di senso e di verità dai quali la cultura europea ha tratto origine. Qualcosa che è ancora estremamente attuale.
* L’autore di questo articolo terrà una relazione dal titolo «L’altro Sessantotto: Praga e il dissenso» a un convegno in programma al Rosetum di Milano sabato 19 gennaio. Qui sotto la locandina.