Ius Scholae, riforma inutile. Ed essere stranieri non è un insulto
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La campagna sullo Ius Scholae è figlia di quella lanciata dal M5S nel 2022. Oggi la propone Forza Italia in termini leggermente diversi. Ma che senso ha dare la cittadinanza a un figlio di immigrati che ha fatto la scuola in Italia? Già oggi a 18 anni può chiedere la cittadinanza. Non ci sono diritti negati ai figli di immigrati. Ed essere stranieri, soprattutto, non è un insulto.
Il ministro degli affari esteri Antonio Tajani si è dichiarato favorevole all’adozione di una legge che introduca lo ius scholae, che consenta cioè di acquisire la cittadinanza italiana ai minori stranieri che abbiano concluso un certo ciclo scolastico. Una proposta di legge in tal senso era stata presentata nel 2022 dal Movimento 5 stelle, acclamata da tutta la sinistra. Prevedeva il diritto alla cittadinanza per i minori nati in Italia o arrivati quando avevano meno di 12 anni a condizione che avessero frequentato per almeno cinque anni un ciclo di studi. La legge non era passata. Presto potrebbe essere ripresentata, ma a condizioni diverse. Quelle pensate da Forza Italia a quanto pare sono due: che il minore straniero abbia concluso due cicli scolastici oppure che abbia terminato la scuola dell’obbligo.
La seconda opzione farebbe apparire una eventuale battaglia per lo ius scholae più una questione di principio che di sostanza. Poiché la scuola superiore è obbligatoria fino a 16 anni, lo ius scholae anticiperebbe infatti soltanto di due anni la possibilità di acquisire la cittadinanza italiana dal momento che, in base alla legge 91 del 1992, a 18 anni i figli nati in Italia da genitori stranieri possono diventare cittadini italiani presentando una semplice dichiarazione di volontà all’Ufficio di stato civile del loro comune di residenza, con il requisito necessario della residenza legale in Italia senza interruzioni fino al compimento dei 18 anni.
La rivendicazione di uno ius scholae, e prima ancora di uno ius culturae, simile ma che in alternativa al ciclo di studi di almeno cinque anni prevede come condizione aver seguito dei percorsi professionali, è stata avanzata dopo che era stata respinta la richiesta di sostituire lo ius sanguinis, riconosciuto in Italia, con lo ius soli. Il primo, lo ius sanguinis, attribuisce la cittadinanza per discendenza: i genitori trasmettono ai figli la loro cittadinanza. Per lo Stato italiano è cittadino italiano anche il discendente di un avo italiano, senza limite generazionale. Lo ius soli stabilisce la cittadinanza di una persona in base al luogo di nascita: si è cittadini del paese in cui si è nati, anche se da genitori stranieri.
Il fulcro della battaglia per lo ius soli, lo ius culturae e lo ius scholae è il riconoscimento ai bambini stranieri degli stessi diritti di quelli italiani, l’ingiustizia presunta, da sanare, di una cittadinanza negata e l’urgenza di un percorso di inclusione sociale che “sapersi stranieri” renderebbe impossibile.
Il primo argomento – i diritti negati – è stato ampiamente smentito. I bambini stranieri godono degli stessi diritti dei loro coetanei italiani, delle stesse libertà e usufruiscono degli stessi servizi, senza discriminazioni e limitazioni. Pur di non ammetterlo, un inconveniente – non può proprio essere considerato un diritto leso – alla fine è stato trovato e riguarda le gite scolastiche. Può capitare infatti che per partecipare a una gita all’estero un bambino non italiano si debba procurare un visto che a quelli italiani non è richiesto.
Invece un inconveniente, anche serio, che non viene minimamente preso in considerazione, può derivare ai minori per il fatto di perdere la cittadinanza dei genitori, nel caso in cui non possano godere della doppia cittadinanza perché i paesi di origine non lo ammettono (ad esempio, il Camerun, la Nigeria, il Senegal, l’Iran, l’Etiopia…). Possono verificarsi problemi sia nel caso che la famiglia continui a vivere in Italia sia nel caso decida o si veda costretta a trasferirsi in un altro Stato o a fare ritorno al paese di origine.
Nel 2022, mentre si discuteva la proposta di legge, l’enfasi era stata posta anche su quanto fosse ingiusto lasciare centinaia di migliaia di bambini e ragazzini “senza cittadinanza”, mantenuti “nel limbo di una non riconosciuta cittadinanza”. Se ne parlava come se fossero apolidi o, piuttosto, fosse una condizione imbarazzante, patita, quotidianamente sofferta, essere, come i genitori, cittadini nigeriani, pakistani, marocchini, bengalesi e, perché no, canadesi, neozelandesi o giapponesi.
Quanto al “sapersi stranieri” e sentirsi per questo esclusi, basta avvicinarsi a una scuola alla fine delle lezioni per tranquillizzarsi a questo proposito: tra i ragazzini che escono felici non c’è traccia di divisioni, demarcazioni, almeno non per il colore della pelle. Sono altri i criteri che inducono all’emarginazione, e al bullismo, e ne scelgono le vittime. Piuttosto, se e quanto un bambino nato in Italia da genitori stranieri o arrivato da piccolo si auto emargina e manifesta ostilità nei confronti dell’ambiente che lo circonda dipende da come questo ambiente gli viene presentato. La responsabilità è senz’altro della famiglia e conta molto il suo grado di integrazione economica e sociale. Può essere altrettanto e ancora più importante, nel caso dei bambini musulmani, l’insegnamento impartito nelle moschee, soprattutto quelle informali.
Ma forse un ruolo ancora maggiore, decisivo, è svolto dalle continue, martellanti campagne – mostre, conferenze, dibattiti, festival… – condotte “a fin di bene” che accusano gli italiani di razzismo, mettono in guardia contro di loro, descrivono l’Italia come un paese inospitale, neofobico, che respinge gli stranieri, li disprezza. Pretendendo di abbattere muri, creano barriere di risentimento e diffidenza. Sono davvero ostacoli all’inclusione.