Italiani in fuga dal lavoro per salvare la salute
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Negli ultimi anni il fenomeno in Italia è aumentato vertiginosamente, persino tra chi ha una famiglia da mantenere e quindi al "posto fisso" dovrebbe tenerci. E invece per molti è diventato una giungla da cui si cerca di evadere, costi quel che costi.
Non se ne parla molto e questo è un buon motivo per farlo sulla Nuova Bussola: intendiamo la Great Resignation, in italiano le Grandi Dimissioni. In poche parole: un sacco di gente molla il lavoro, se ne va di punto in bianco, manda tutti a quel paese.
Si calcola che in Italia, negli ultimi anni, il fenomeno sia aumentato del 73%; le motivazioni? Eccole: «Chi cambia lavoro lo fa principalmente per cercare benefici economici (46%), opportunità di carriera (35%), per una maggiore salute fisica o mentale (24%) o per inseguire le proprie passioni personali (18%) o una maggiore flessibilità dell'orario di lavoro (18%). Ma emergono anche altri elementi di malessere sul lavoro. Analizzando tre dimensioni del benessere lavorativo (fisica, sociale e psicologica), solo il 9% degli occupati dichiara di stare bene in tutte e tre. L'aspetto più critico è quello psicologico: 4 su 10 hanno avuto almeno un'assenza nell'ultimo anno per malessere emotivo. Preoccupazioni che si riflettono anche sullo stato fisico, con difficoltà a riposare bene e/o insonnia (55%)».
Una ricerca Randstad mette in evidenza le seguenti motivazioni:
- sovraccarico di lavoro (32%);
- desiderio di emulazione (18%);
- perdita dei punti di riferimento (18%);
- demotivazione (17%).
La ricerca mette in evidenza come un elemento fondamentale siano le «ambizioni professionali frustrate».
Insomma: sempre più persone, sul lavoro, stanno talmente male da lasciarlo. Come mai? Avanziamo quattro possibili ipotesi, lasciando al gentile lettore il compito di valutarle.
1) Il fenomeno riguarderebbe soprattutto le generazioni più giovani; spesso queste generazioni sono accusate di non voler sacrificarsi, fare fatica. In passato, ministri del governo italiano avevano accusato i giovani di essere «bamboccioni». Potrebbe essere, la fragilità delle ultime generazioni è un fatto più volte osservato; ma forse c'è dell'altro.
2) Una seconda possibile causa potrebbe essere la crisi del matrimonio e della natalità. Siamo una società nella quale ci si sposa sempre meno; e, ancora meno, ci si riproduce. È noto che, se dal proprio lavoro dipendono altri, si diventa molto più responsabili e difficilmente si lascia il posto di lavoro; se poi si hanno dei figli e si ha la preoccupazione di assicurargli un futuro, il lavoro diventa ancora più prezioso. Potrebbe essere anche questo; eppure, se penso alle numerose persone che ho incontrato in studio e hanno deciso di lasciare il lavoro (sì, il mio piccolo osservatorio privato conferma la Great Resignation) i conti non tornano. La maggior parte di loro era sposato e aveva famiglia. Quindi anche questa possibile causa non è sufficiente.
3) Come evidenzia la ricerca Randstad, le ambizioni professionali frustrate hanno un certo peso. Un momento: cosa sono le ambizioni professionali? Ho due ricordi infantili, entrambi uditivi, legati all'Alfa Romeo di Arese, a pochi chilometri da casa mia. Il primo è la sirena dell'ingresso degli operai, alle otto del mattino. Il secondo è il passaggio degli operai, in bicicletta, sotto casa mia (sulla strada dal mio paese verso l'Alfa). Sapete? Cantavano. Andavano al lavoro cantando; mentre oggi, andando al lavoro, tutti sembrano tristi, spenti. Non credo che il segreto della loro gioia fosse la soddisfazione personale: conosco alcuni di loro, hanno passato tutta la loro vita a «tirare [stringere] bulloni». Penso, piuttosto, che fossero felici perché, con il loro faticoso e poco soddisfacente lavoro, potevano pagare il mutuo della casa, gli studi dei figli, l'automobile, le vacanze. Insomma, vivevano il lavoro in modo evangelico, cioè per il sostentamento: «Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6, 25-34).
Secondo san Tommaso d’Aquino (1225-1274), il lavoro (manuale) ha quattro scopi il primo dei quali è il sostentamento; gli altri sono combattere l’ozio, frenare la concupiscenza (mortificando il corpo), avere di che fare l’elemosina (S. Th. II-II, q. 187, a. 3). Per giustificare posizione, san Tommaso utilizza il noto versetto Gn 3, 19 («Nel sudore del tuo viso mangerai il tuo pane»), ma anche il Salmo 127: «Mangerai i frutti delle tue fatiche» (127, 2). Non parla di soddisfazione personale, gratificazione, realizzazione. Forse perché san Tommaso sapeva che non ci si realizza nel lavoro, ma amando. Quel giorno non ci verrà chiesta l'ultima busta paga, ma quanto abbiamo amato nella nostra vita. Eppure oggi sembra prevalere una visione calvinista del lavoro: la realizzazione personale coincide con il successo lavorativo. Se il successo tarda ad arrivare, le gratificazioni scarseggiano, la valorizzazione personale manca, ecco il famoso burn-out. Abbiamo caricato il lavoro di significati che non ha: ecco il perchè delle «ambizioni professionali frustrate».
4) C'è però anche una quarta possibile causa di frustrazione lavorativa: il fatto che il mondo del lavoro sia oggettivamente un inferno, almeno per la maggior parte delle persone. Il lavoratore viene oppresso da carichi di lavoro impossibili, costretto a orari disumani, sottopagato; e non ha nessun potere contrattuale. La risposta a chi si lamenta è sempre la stessa: «C'è la fila fuori dalla porta». Ed è vero. Il tasso di disoccupazione ufficiale è superiore all'8% (nell'Italietta della liretta c'era la piena occupazione; in Svizzera c'è la piena occupazione). Ma le cose sono ancora peggiori. L'Unione Europea impone all'Italia una disoccupazione intorno al 12%. Questo è infatti il NAWRU (Non-accelerating salary rate of unemployment) che l'UE impone al nostro paese e non ci si può scostare da quel valore: se la disoccupazione supera il NAWRU, l'UE chiede misure espansive (crescita); se è inferiore, impone misure recessive (e quindi perdita di posti di lavoro). Beh, questo varrà per tutta l'UE, giusto? No. L'UE impone ad ogni Paese un NAWRU diverso: l'Italia è sopra l'11%, in Francia è un pò più basso (quindi può crescere economicamente); la Germania ha un NAWRU di circa il 3%. Ma perchè l'UE impone il NAWRU? Teoricamente, per contenere l'inflazione e quindi salvaguardare i salari. Il NAWRU è infatti d efinito come «il tasso di disoccupazione compatibile con un'inflazione salariale costante». Funziona? Evidentemente no, visto che l'inflazione ha superato l'11% e che i salari in Italia risultano addirittura diminuiti (caso unico) dall'ingresso nell'Unione Europea.
Insomma e per concludere: il mondo del lavoro è diventato, per molti, una vera giungla e lasciare il lavoro è l’unico modo per preservare la salute e le relazioni familiari. L’Italia dovrebbe essere una repubblica fondata sul lavoro (art. 1) e la Chiesa ha una dottrina sociale. Tutto bene?
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