STATO DI CRISI
Italia, il grande inganno tecnico
Crolla tutto e le formulette contabili non risolvono guai come quelli che la crisi mette solo spietatamente in luce. Ciò che serve sono uomini diversi.
Editoriali
11_04_2012
Il giro di boa della Pasqua viene buono anche per un bilancio socio-politico. Che è sempre più una valle di lacrime.
Al rientro dopo la breve pausa del triduo pasquale, gli italiani si trovano infatti più vessati, impoveriti e alle strette che mai. Sembra un bollettino di guerra. Il potere di acquisto dei pochi denari che ci restano in tasca (termometro della ricchezza reale dei cittadini, al di là di ogni arzigogolo contabile e di ogni illazione finanziaria) scivola sempre più in basso. La capacità concreta di risparmio delle famiglie (non certo la propensione a esso) si riduce ogni ora che passa. Il lavoro manca, cala, si sminuzza sino a perdersi. Aumentano le partite IVA solo perché gli italiani cercano di cavarsela da soli, inventandosi a tutti i costi il lavoro là dove esso non c’è. Quel famoso, benedetto (o maledetto) spread, che anche i profani si sono abituati a ripetere come un mantra e a considerare la Sibilla cumana dello stato della nostra crisi (al di là che, mica per colpa loro, abbiano capito davvero cosa sia, a cosa serva e come funzioni) è tornato a schizzare in alto: ieri il differenziale tra i Btp decennali italiani e gli omologhi tedeschi Bund è tornato a quota 400 punti. Sempre ieri, Piazza Affari è crollata di 5 punti percentuali: anche il resto delle Borse europee ha perso sensibilmente, epperò l’Italia di questi tempi non si fa mancare nulla e così il nostro crollo è stato doppio del loro. L’unico indicatore che punta in alto invece che in basso è quello delle imposizioni fiscali: non occorre infatti essere dei partigiani di Confindustria per rendersi conto di quant’è vero che il governo tecnico guidato da Mario Monti ha davvero esagerato con l’aumento delle tasse, rendendo l’Italia il Paese più zavorrato della UE. Né occorre essere degli specialisti raffinati per capire che prelevando continuamente e smodatamente dalle tasche dei contribuenti si inibisce la ripresa dei consumi e il rilancio dell’economia, soprattutto se la spesa pubblica resta (come appunto la tassazione) fuori registro.
A questo punto, però, l’uomo della strada, e uomini della strada li siamo tutti, si domanda esterrefatto che fine abbia fatto la granitica convinzione - espressa solo ieri da tutti, per primi i vertici istituzionali del nostro Paese - secondo cui sarebbe bastato cambiare semplicemente un presidente del Consiglio dei ministri per risollevare una Italia allo sfascio. S’interroga basito su dove sia finita la "bacchetta magica" dei contabili e dei mezzemaniche voluti al posto della politica poiché considerati per principio migliori di essa, quella che avrebbe messo a posto tutto in quattro e quattr’otto solamente facendo girare un po’ più a ritmo la manovella del registratore di cassa. Si chiede affranto dove e a che punto ci siamo persi nel valzer di addizioni e sottrazioni, visto che, a conti fatti, stiamo tutti peggio di prima. E alla fine della fiera si rende conto di vivere soltanto dentro un grande, colossale inganno.
Non esiste, infatti, la formula perfetta, il premier taumaturgo, il tecnico salvatutti. Esiste al suo posto invece un buco enorme, anzi una voragine che, stando così le cose, nessuno riuscirà colmare. Perché il problema resta sempre a monte.
La crisi di oggi è il nodo venuto al pettine di sistemi economici gonfiati e irreali; di apparecchi monetari da Monopoli; di situazioni contabili al di sopra delle possibilità di tutto e di tutti poiché, ennesima follia della ragione impazzita, mero frutto di culture sbagliate in radice; di tragedie demografiche immani altrettanto figlie di ideologie perverse che tutti preferiamo però non guardare in faccia per evitare di vederne le orbite cave; di uno Stato ipertrofico che ha oramai raggiunto la soglia dell’insostenibilità e dell’insolvenza e a cui tocca solo bancarotta; di licenze scambiate per libertà e di responsabilità inesistenti. Siano tutti lavoratori diseducati al lavoro e imprenditori che non sanno intraprendere, scambiamo costantemente i nostri desideri nemmeno tanto pii con i diritti garantiti, e di doveri mai nemmeno l’ombra. Non è un problema di "capitalismo", ma il guaio di noi "capitalisti".
La crisi di oggi è il nodo venuto al pettine di sistemi economici gonfiati e irreali; di apparecchi monetari da Monopoli; di situazioni contabili al di sopra delle possibilità di tutto e di tutti poiché, ennesima follia della ragione impazzita, mero frutto di culture sbagliate in radice; di tragedie demografiche immani altrettanto figlie di ideologie perverse che tutti preferiamo però non guardare in faccia per evitare di vederne le orbite cave; di uno Stato ipertrofico che ha oramai raggiunto la soglia dell’insostenibilità e dell’insolvenza e a cui tocca solo bancarotta; di licenze scambiate per libertà e di responsabilità inesistenti. Siano tutti lavoratori diseducati al lavoro e imprenditori che non sanno intraprendere, scambiamo costantemente i nostri desideri nemmeno tanto pii con i diritti garantiti, e di doveri mai nemmeno l’ombra. Non è un problema di "capitalismo", ma il guaio di noi "capitalisti".
Questa crisi immane e profonda è insomma il trionfo della "società incivile". Questo modello occidentale ha fallito. Ne serve altro. Il pontefice consiglia da tempo di ripartire dalla questione morale e antropologica: che di suo non risana l’economia, ma che imposta correttamente come nient’altro può fare il problema vero, una cosa che, in questo mondo di ciechi guidati da orbi, è già una manna. L'ideale di una società autenticamente a misura di uomo, e possibilmente secondo il piano di Dio - per utilizzare parole famose e felici del beato Giovanni Paolo II -, non è una formuletta da sfoderare alla bisogna per mostrare di avere sempre la battuta pronta. È un progetto vero, concreto, materiale. Un impegno. E comincia con cose "volgarissime" come il lavoro, le tasse o le pensioni. Comincia da e con uomini che di queste cose si occupino in una certa maniera e mai in un'altra.