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Israele, tutti i rischi di una guerra in Libano

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Da un lato Israele punta a ricostituire una “zona cuscinetto” nel Libano meridionale per difendersi da Hezbollah; dall’altro l’apertura di un nuovo fronte potrebbe rivelarsi un boomerang a livello economico, politico e militare.

Esteri 25_09_2024
Periferia sud di Beirut dopo un raid di Israele, 24/09/2024 (Ap via LaPresse)

Oltre 500 morti in Libano solo nelle ultime 24 ore mentre i raid israeliani si intensificano e le milizie sciite di Hezbollah rispondono col lancio di razzi sulla Galilea. La progressiva escalation delle operazioni israeliane oltre la “Blue Line”, il confine mal definito tra lo Stato ebraico e il Paese dei Cedri, ha raggiunto l’apice dopo gli attentati dell’intelligence israeliana che in due giorni ha ferito o ucciso molti miliziani sciiti facendo esplodere i loro cercapersone e walkie-talkie.

Ieri, parlando alle truppe durante un'esercitazione che simula un'offensiva terrestre in Libano, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha affermato che le truppe hanno «già preparato ulteriori colpi» per Hezbollah. «Hezbollah di oggi non è quello di una settimana fa – ha detto Gallant –, la sequenza di colpi che ha subìto nel suo comando e controllo, nei suoi operativi, nelle sue armi, tutte queste cose sono colpi estremamente gravi. Ne abbiamo altri pronti, sappiamo cosa fare», ha aggiunto. L'esercitazione è l'ultima di una serie condotta dalle forze armate in vista di una potenziale offensiva di terra contro Hezbollah in Libano.

In effetti, la furia metodica con cui Israele ha messo in atto gli attentati e gli attacchi militari contro Hezbollah potrebbe indicare i preparativi di una grande offensiva militare che punti a conquistare il territorio del Libano meridionale compreso tra il confine e il fiume Litani (Leonte) con l’obiettivo di ricostituire quella “fascia di sicurezza” che Israele aveva mantenuto grazie anche a milizie cristiane libanesi per circa 20 anni fino al ritiro nel 2000 voluto dal premier laburista Ehud Barak. Una “zona cuscinetto” che aveva permesso a Israele di tenere a distanza le artiglierie palestinesi e poi di Hezbollah che minacciavano la Galilea e che venne riconsegnata alla sovranità libanese in base al programma “terra in cambio di pace” con cui Israele nel 2005, con un governo guidato dal “falco” Ariel Sharon, consegnò Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese. Israele cedette i territori occupati ma non ottenne certo vicini pacifici. Anzi, Gaza e il Libano meridionale sono divenuti piattaforme ideali per bersagliare il territorio israeliano. Complice anche una risoluzione dell’Onu, la 1701, che impegnava i 12 mila caschi blu schierati nel Libano del Sud a disarmare le milizie, cioè Hezbollah, ma che nessuno ha mai provato ad applicare nonostante le proteste israeliane.

Per questo oggi Israele, che dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 affida sempre di più alle armi le sue iniziative, appare costretto a ripristinare “fasce di sicurezza” a Gaza come in Libano e forse in Cisgiordania. Se nel 1982 l’Operazione Pace in Galilea vide le truppe israeliane marciare senza troppi ostacoli fino a Beirut, già nel 2006 le brigate di Tsahal (le forze armate d’Israele) ebbero molte difficoltà a combattere Hezbollah sulle colline del Libano meridionale dove subirono gravi perdite.

Nonostante gli attacchi israeliani abbiano oggi indebolito Hezbollah, un’offensiva terrestre comporterebbe una lunga e sanguinosa campagna militare: sanguinosa anche per Israele, tenuto conto che i miliziani di Hezbollah sono ben addestrati (dai pasdaran iraniani) e molto ben armati. Il governo di Benjamin Netanyahu deve ancora completare le operazioni contro Hamas nella Striscia di Gaza e aprire un nuovo fronte potrebbe non essere una buona idea, non solo sul piano politico ma anche militare, tenuto conto che dopo quasi un anno di guerra (Israele ha iniziato le operazioni a Gaza il 27 ottobre 2023) l’esercito israeliano ha consumato un gran numero di munizioni (missili, proiettili d’artiglieria e per i carri armati) e le sue riserve sono state alimentate solo grazie agli sforzi degli Stati Uniti.

Ragioni che potrebbero indicare che Israele non intende scatenare l’assalto al Libano (almeno non ora) ma solo mantenere sotto pressione Hezbollah per indebolire sempre di più l’organizzazione islamista e impedirle di lanciare massicci attacchi con razzi e missili contro la Galilea. Difficile andare oltre le ipotesi, ma certamente Netanyahu dovrà tenere conto anche dell’aspetto economico e delle pressioni internazionali. Migliaia di cittadini sono sfollati dalla Galilea sotto il tiro di Hezbollah, la guerra comporta costi finanziari altissimi mentre l’economia langue anche a causa delle operazioni delle milizie Houthi dello Yemen, che con gli attacchi ai mercantili di fatto hanno dirottato nell’Oceano Atlantico gran parte del traffico marittimo che attraversava il Mar Rosso per raggiungere il porto di Eilat e il Mediterraneo. Una crisi economica giustificabile in caso di guerra breve e vittoria-lampo, un tipo di successo che Israele non sembra oggi più in grado di conseguire sui campi di battaglia neppure contando sulla sua superiorità militare.

Le pressioni internazionali inoltre tendono a imporre a Israele un cessate il fuoco a Gaza che Hamas vorrebbe fosse definitivo per poter cantare vittoria, mentre Israele pretende di concederlo solo temporaneamente per portare a casa gli ultimi ostaggi ancora in vita e non perdere la faccia. Netanyahu avviò le operazioni militari a Gaza con l’obiettivo di annientare militarmente Hamas. Obiettivo non ancora conseguito, anche se al Ministero della Difesa di Tel Aviv si dicono ottimisti.

Negli Stati Uniti l’amministrazione Biden ha bisogno che gli israeliani cessino le operazioni a Gaza aderendo al cosiddetto “Piano Biden” per non compromettere il voto di larghe fasce di elettorato giovanile, progressista e islamico di cui ha bisogno Kamala Harris. Inoltre, in tutto l’Occidente la devastazione di Gaza rende sempre più imbarazzante per molti governi ribadire il sostegno a Israele. Per questo Netanyahu sta provando in tutti i modi a coinvolgere direttamente nella guerra l’Iran come hanno dimostrato il bombardamento del consolato della repubblica islamica a Damasco e l’uccisione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran. Se l’Iran attaccasse Israele, le potenze occidentali scenderebbero in campo compatte al suo fianco. 

Il governo iraniano non sembra però disposto a cadere nella trappola, pur mal sopportando le provocazioni israeliane. Del resto, l’Iran questa guerra la sta vincendo anche senza combatterla direttamente grazie ai suoi alleati (Hamas, Hezbollah, milizie sciite in Iraq e Siria e Houthi) che tengono testa alla potenza militare di Israele, mettendone in crisi l’economia e isolandolo progressivamente dalla comunità internazionale e dai suoi alleati storici.



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