Gli Houthi continuano a colpire impunemente il traffico marittimo
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Nel Mar Rosso, il 17 settembre, sono incominciate le operazioni di recupero della petroliera greca Sounion. Ultima vittima (in ordine di tempo) degli Houthi, il gruppo sciita filo-iraniano che riesce ancora a bloccare il Mar Rosso e colpire Israele.
Nel Mar Rosso, il 17 settembre, sono incominciate le operazioni di recupero della petroliera greca Sounion, abbordata e incendiata dai terroristi Houthi, una settimana dopo che l’avevano disabilitata. L’odissea della Sounion era iniziata il 21 agosto, quando la petroliera, al largo di Hodeida era stata attaccata a colpi di armi leggere e barchini esplosivi. L’equipaggio ha abbandonato la nave ed è stato salvato da un cacciatorpediniere francese della missione Aspides, dell’Unione Europea. Il 30 agosto i miliziani erano saliti a bordo della grande nave, ormai deserta, e avevano fatto detonare almeno sei bombe a bordo, provocando l’incendio del petrolio che trasportava. Si teme tuttora un disastro ecologico, ma finora, dopo quasi tre settimane di incendio, non risultano perdite e la spedizione di recupero dovrebbe salvare il prezioso fondale marino del Mar Rosso. Gli Houthi stessi hanno promesso una tregua per consentire le operazioni di recupero.
La petroliera greca è solo l’ultima delle vittime degli Houthi, pirati del XXI Secolo, milizia sciita legata, come Hezbollah, al regime di Teheran, che dall’inizio della guerra a Gaza, dal 19 ottobre 2023 hanno iniziato ad attaccare i mercantili in rotta per Israele. Almeno 30 le navi colpite e danneggiate dai loro attacchi, di cui due affondate. Un blocco navale che sta colpendo non solo lo Stato ebraico, ma tutto il traffico mercantile del Canale di Suez e Mar Rosso, da cui transitavano, mediamente 19mila navi all’anno, più del 10% del traffico marittimo mondiale, fra cui petroliere con un totale di 7,8 milioni di barili. Il prezzo determinato dal blocco è molto salato, considerando l’aumento dei costi determinato dalla scelta della rotta alternativa, il periplo dell’Africa: 10 giorni in più di percorrenza, per 3500 miglia marittime. L’Italia, così come le altre nazioni mediterranee, è direttamente colpita.
Vista la posta in gioco, sia la Nato che l’Ue hanno lanciato le loro missioni di scorta e con l’operazione Poseidon Archer le navi britanniche e statunitensi hanno lanciato una serie di attacchi missilistici e aerei sulle basi di terra degli Houthi, nello Yemen occidentale. Ma i risultati si vedono solo in minima parte. Secondo il generale Douglas Sims, nuovo direttore degli Stati Maggiori Riuniti degli Usa, otto mesi di raid hanno distrutto la capacità degli Houthi di lanciare attacchi complessi con droni e missili. Tuttavia, gli Houthi hanno dimostrato di aver ancora ottime capacità di colpire a grande distanza obiettivi sensibili.
A fine luglio un drone è arrivato fin nel centro di Tel Aviv, uccidendo un uomo e ferendone una decina. Israele ha risposto bombardando i depositi di carburante di Hodeida. Ma domenica scorsa, 15 settembre, gli Houthi hanno lanciato un altro missile balistico, sempre su Tel Aviv. L’ordigno non ha provocato morti o feriti e ha mancato il bersaglio, ma è stata un’azione dimostrativa importante: il centro di Israele è ancora sotto tiro dallo Yemen. L’abbordaggio e la distruzione della Sounion è invece la dimostrazione che gli Houthi possono ancora bloccare il Mar Rosso.
La strategia anglo-americana, fatta di raid selettivi contro posizioni di lancio, centri di comando e controllo e depositi degli Houthi, insomma, non sembra aver ottenuto quello che è l’obiettivo principale: ripristinare la piena libertà di navigazione e garantire una maggior sicurezza a Israele. Il 19 luglio, il Wall Street Journal rivelava il contenuto di una lettera confidenziale spedita dal generale Kurilla, comandante in capo del Centcom (il comando Usa per il Medio Oriente) al segretario alla Difesa, Lloyd Austin. Il generale riteneva insufficiente lo sforzo bellico americano per porre fine alla minaccia del gruppo terrorista. E chiedeva un’azione molto più vigorosa. L’autorizzazione ad ampliare le operazioni non è mai arrivata.
Sono molte le ipotesi sul perché di un atteggiamento così remissivo, da parte dell’amministrazione Biden, in un fronte che pure è molto caldo. La prima e più ovvia è che voglia evitare un’escalation su un altro fronte mediorientale. La seconda, e più cinica, è che voglia evitare ogni conflitto prima delle elezioni di novembre. La terza è che, in cambio di una mancata risposta iraniana all’uccisione (in piena Teheran) del leader di Hamas Ismail Haniyeh, abbia promesso una de-escalation contro gli Houthi. Il periodo della quasi completa cessazione delle attività militari americane nella regione, e quello della trattativa segreta, praticamente, coincidono.
Ma, di fondo, l’amministrazione Biden non ha mai preso sul serio la minaccia degli Houthi. Nel 2021, per ragioni umanitarie, ha sospeso la fornitura di armi all’Arabia Saudita che li stava combattendo (infliggendo gravi perdite alla popolazione yemenita). Sempre nel 2021, per riprendere i negoziati con l’Iran, Biden aveva eliminato il nome degli Houthi dalla lista nera delle organizzazioni terroristiche. Solo l’attacco a Israele del 7 ottobre ha costretto l’amministrazione democratica a cambiare drasticamente atteggiamento sull’Iran e sui suoi alleati. Ma per l’Iran e per gli Houthi resta, evidentemente, un certo occhio di riguardo.
Ora, però, le milizie sciite yemenite annunciano che per l’anniversario del 7 ottobre lanceranno attacchi molto più massicci. E anche Putin ventila l’idea di fornire loro armi più moderne e più potenti rispetto a quelle iraniane. Nelle prossime settimane, insomma, Biden sarà di nuovo costretto a far scelte dolorose.