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medio oriente

Israele spara sui caschi blu, l'impotenza della missione ONU

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Le giustificazioni israeliane per l'attacco alle postazioni UNIFIL non placano l'ira internazionale, nel momento più teso tra Netanyahu e il Palazzo di Vetro. E la presenza dei peacekeeper delle Nazioni Unite appare vana e inutilmente pericolosa.

Esteri 12_10_2024
La Presse (AP Photo/Hussein Malla, File)

La pezza è peggio del buco. La giustificazione con cui l'esercito israeliano ha motivato gli attacchi ad alcune postazioni dei caschi blu della missione UNIFIL lungo il confine tra Israele e Libano appare davvero poco convincente e ben difficilmente potrà placare l’ira di diverse nazioni europee, Italia inclusa, che schierano i propri soldati nel Libano meridionale.

Il comando delle Israeli Defence Forces (IDF) ha affermato in una nota di aver colpito la postazione dell'UNIFIL dopo aver aperto il fuoco contro una «minaccia» vicina alle forze di pace nel sud del Libano. Le esplosioni in cui sono rimasti feriti due caschi blu dello Sri Lanka e due indonesiani sono conseguenza di una «minaccia imminente che i soldati israeliani che operavano nel sud del Libano avevano identificato contro di loro. Un primo esame indica che una postazione dell'UNIFIL, situata a circa 50 metri dalla fonte della minaccia, è stata colpita durante l'incidente», si legge nella nota.
«Diverse ore prima dell'incidente, l'esercito israeliano aveva informato il personale dell'UNIFIL di rifugiarsi in aree protette e di rimanervi e questa istruzione era ancora valida» al momento dei fatti, aggiunge l'esercito, che continua per «esaminare le circostanze dell'incidente».

Di fatto quindi l'IDF sostiene di aver sparato contro gli avamposti dei caschi blu per difenderli e ha accusato Hezbollah di aver «deliberatamente» messo in pericolo i soldati dell'UNIFIL. In un'altra dichiarazione in cui esprime «profonda preoccupazione», l'esercito israeliano ha assicurato che «sta conducendo un esame approfondito al più alto livello di comando per stabilire nei dettagli cosa sia successo».

Una risposta certo insoddisfacente per Francia, Italia e Spagna ma anche per il comando di UNIFIL, il contingente di 10.400 caschi blu (1.100 sono italiani) guidato oggi da un generale spagnolo che non aveva lamentato attacchi da parte di Hezbollah. Anzi, già il giorno prima degli attacchi israeliani la milizia libanese aveva accusato le IDF di schierarsi a ridosso delle basi dell’ONU utilizzando i caschi blu come scudi umani.
Il 10 ottobre il portavoce di UNIFIL, Andrea Tenenti, aveva riferito che «la situazione è preoccupante, quello accaduto oggi è un atto voluto e deliberato da parte dell'IDF. La nostra presenza rimane. Siamo rimasti anche quando gli israeliani ci hanno chiesto di muoverci dalle postazioni vicino alla Linea Blu, cosa che ci è stata chiesta quotidianamente, di postarci su postazioni lontane dalla Linea Blu. È importante che ci sia una presenza, oggi di oltre 10.400 soldati da 50 Paesi. La presenza è al momento voluta non solo per il monitoraggio, ma anche per l'assistenza alla popolazione locale: la maggior parte della popolazione sfollata se n'è andata dal sud del Libano, ma ci sono migliaia di persone bloccate nei vari villaggi. Portare assistenza umanitaria a questi villaggi è sicuramente molto importante. Ed è quello che stiamo cercando di fare, in situazioni molto difficili».

Parigi e Madrid, durissime con Tel Aviv, hanno già chiesto lo stop alle forniture di armi a Israele mentre a Roma tutte le massime cariche del governo hanno espresso preoccupazione e chiesto chiarimenti. Dal Kosovo, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha detto chiaramente che «non si parla di ritiro delle truppe italiane dalla missione UNIFIL. Qualunque decisione comunque viene presa dalle Nazioni Unite». Crosetto ha aggiunto sarcasticamente: «Ai miei colleghi israeliani ho chiesto: cosa succede la prossima volta? Dobbiamo rispondere? Era una domanda provocatoria per far capire la gravità dell'atto» compiuto da Israele.

A chiarire quale sia la situazione nel Libano del Sud, divenuto ormai un campo di battaglia senza esclusione di colpi, ha contribuito anche il portavoce di Hezbollah, Mohammad Afif. «Al momento la nostra priorità assoluta è sconfiggere il nemico e costringerlo a mettere fine alle sue aggressioni. Qualsiasi sforzo politico interno o esterno per raggiungere questo obiettivo è lodevole, purché sia compatibile con la nostra visione complessiva della battaglia, le sue circostanze e i suoi risultati», ha aggiunto. In precedenza Hezbollah aveva subordinato la fine delle ostilità al ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza.

La missione UNIFIL risente del mancato rispetto di una parte rilevante della Risoluzione dell’ONU 1701, che prevedeva il disarmo e il ritiro di tutte le milizie dalla regione del Libano meridionale compresa tra il confine israeliano (la Linea Blu) e il fiume Litani.
In realtà Hezbollah non ha mai ceduto le armi né si è mai ritirato a nord del Litani (dove peraltro le milizie sunnite non gradirebbero questa ingombrante presenza) mentre le forze armate libanesi mantengono una presenza poco incisiva e di quasi sudditanza nei confronti della milizia scita.

Un contesto che ha visto e vede Hezbollah lanciare razzi su Israele da postazioni vicine ai villaggi e alle basi dei caschi blu, esposte da sempre alla risposta di aerei e artiglieria israeliani. Che Israele punti a far sloggiare le forze dell’ONU per avere mano libera è quindi comprensibile anche tenendo conto del fatto che i rapporti tra Palazzo di Vetro e governo israeliano non sono mai stati così tesi, specie dopo l’ultimo infuocato intervento di Benjamin Netanyahu all’assemblea dell’ONU.

La recrudescenza degli scontri lungo il confine e le penetrazioni israeliane contrastate con successo dagli Hezbollah lasciano intendere che la guerra per il sud del Libano sarà lunga e sanguinosa e vede i caschi blu fungere da testimoni esposti al fuoco dei belligeranti ma senza essere protagonisti del conflitto né disporre di vere capacità di autodifesa.
La forza dell’ONU dispone di armamento leggero oltre a qualche blindato e mortai ma non è schierata in assetto tattico: le sue basi non sono fortificate ma dispongono di rifugi per proteggere il personale. UNIFIL non è schierata per combattere ma per pattugliare il territorio. I peacekeeper «sono sempre più in pericolo e la loro sicurezza è sempre più a rischio», ha detto Jean-Pierre Lacroix, capo del Dipartimento per le Operazioni di pace dell’ONU (DPKO) intervenendo al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
«Il continuo impegno dei Paesi che contribuiscono con le truppe all'UNIFIL, così come il continuo sostegno unito di questo Consiglio sono più importanti che mai», ha aggiunto. I peacekeeper «restano nella loro posizione mentre i rischi sono in fase di valutazione».

Pragmaticamente, la battaglia in atto destinata ad ingigantirsi con il progredire della penetrazione israeliana in territorio libanese, rende di fatto vana e inutilmente pericolosa la presenza dei caschi blu in quella regione. Meglio sarebbe provvedere al ritiro immediato o via strada attraversando il Fiume Litani su percorsi prestabiliti per scongiurare di finire sotto il fuoco dei belligeranti, oppure via mare dal porto di Tiro.
La determinazione a lasciare i militari dell’ONU rintanati nei loro rifugi sotto il fuoco può venire giustificata solo sul piano politico dalla volontà dei vertici delle Nazioni Unite, umiliati dall’atteggiamento di Tel Aviv, di non darla vinta allo Stato ebraico. Giustificazione comprensibile ma che sarebbe difficile spiegare ai familiari dei caschi blu che dovessero cadere in battaglia in una guerra non loro e di cui sono impotenti spettatori. 



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