Israele in un cerchio di guerre e crisi, mentre a Gaza si muore
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In Libano, dopo l'uccisione del dirigente di Hamas al Arouri, Hezbollah non lancia una rappresaglia. Ma le crisi che circondano Israele rischiano di scoppiare.
Troppi focolai di guerra si stanno accendendo attorno ad Israele. È dall’inizio del conflitto nella Striscia di Gaza, che in altri paesi confinanti, le milizie dei vari gruppi paramilitari, e non solo, sono pronte ad imbracciare le armi contro lo stato ebraico: in Libano, Siria, Iraq e Iran la tensione sale. Anche la Turchia e l’Egitto lanciano “messaggi” tutt’altro che rassicuranti al governo di Benjamin Netanyahu. In particolare, dopo l’uccisione mirata di Saleh al-Arouri, ex leader delle Brigate al-Qassam e membro dell'ufficio politico di Hamas, impegnato a coordinare le attività militari e politiche del gruppo fuori dalla Striscia e a raccogliere sostegno politico e finanziario. L’omicidio “chirurgico” è avvenuto martedì scorso a Dahayeh, periferia meridionale di Beirut. Parlando ad una grande folla riunita per la commemorazione del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso dagli americani quattro anni fa, coordinatore del sostegno agli Hezbollah libanesi e ai palestinesi di Hamas, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, dal suo rifugio segreto in Libano, ha spiegato che quando Hezbollah ha aperto il fronte in Libano, lo ha fatto a sostegno del popolo oppresso di Gaza.
Nasrallah ha evidenziato che non vuole coinvolgere il Paese dei Cedri in una guerra che potrebbe avere conseguenze disastrose per la popolazione, ma ha dichiarato: «Le nostre battaglie non avranno limiti, né controllo», raggirando, però con astuzia, la questione ancora aperta dell’attacco israeliano che ha violato la sovranità del Libano e provocato morti e distruzione. Il leader di Hezbollah si è soffermato, invece, sullo scontro, attualmente in atto, al confine con Israele: «Hezbollah ha avuto più di cento martiri combattenti uccisi da Israele - ha detto - a cui si aggiungono oltre venti civili morti sotto le bombe. Il loro sangue, i loro sacrifici avranno conseguenze positive per la Palestina, il Libano, l’Iraq, la Siria, lo Yemen e l'intera regione». Dopo i bombardamenti israeliani su Gaza, ha aggiunto: «È caduta l’immagine dello Stato ebraico nel mondo. Tutti hanno visto che Israele è un carnefice. A Gaza ci sono migliaia di martiri palestinesi uccisi dalle bombe israeliane».
Chi si aspettava un discorso duro o una chiamata alle armi è rimasto un po’ deluso. Sia Hezbollah che il suo protettore, l’Iran, stanno mostrando notevole moderazione. Forse per la presenza militare americana nel Mar Rosso. Ma la reazione da parte israeliana è stata opposta. Infatti, David Barnea, capo del Mossad, i servizi segreti israeliani, ha detto, nel corso di un incontro con la stampa, che «chi ha preso parte al massacro del 7 ottobre ha firmato il proprio certificato di morte». Non ha però fatto cenno all’uccisione del vicecapo di Hamas, Saleh al-Arouri, né tantomeno alle bombe che ventiquattro ore più tardi hanno determinato la morte di 84 persone a Teheran (poi rivendicate dall'Isis, ndr), durante la commemorazione del generale Soleimani, capo delle Guardie della Rivoluzione. Ma l’intervento del capo dei servizi segreti è comunque la prima conferma ufficiale che Israele ha aperto la “caccia all’uomo” in tutto il Medio Oriente, e non solo, agli autori del tremendo massacro di ebrei perpetrato dai miliziani di Hamas il 7 ottobre dello scorso anno.
Intanto a Gaza, dopo tre mesi, si continua a morire. Il bilancio delle vittime è salito ufficialmente a 23.350, tra cui almeno 9.600 bambini e 6.750 donne; 7mila sono i dispersi, mentre i feriti sono più di 57.200. L’esercito israeliano, nel frattempo, ha esteso la sua offensiva di terra nel sud della Striscia, ma ha annunciato il ritiro di cinque brigate impegnate nel conflitto, all’interno di un nuovo piano strategico dello schieramento militare deciso dal Comando generale delle forze armate di Tel Aviv. «Alcune unità di riservisti torneranno a casa questa settimana, sapendo che la guerra continua e che avremo ancora bisogno di loro nel 2024», ha sottolineato il portavoce delle forze Daniel Hagari.
Nella Striscia, che continua ad essere un vero e proprio inferno - così viene definita la situazione dagli abitanti che ancora sono rimasti in vita - i profughi sono costretti a dirigersi verso la parte meridionale del paese, ben sapendo che nemmeno lì saranno al sicuro. A Rafah, al confine con l’Egitto, nel frattempo, sono ammassati quasi un milione e mezzo di palestinesi. Oltre il 70% delle case di Gaza sono state distrutte. Manca tutto: cibo, acqua, medicine, elettricità. Ma soprattutto non c’è più un ospedale. I feriti non possono essere soccorsi e i corpi dei morti sono lasciati per strada senza una degna sepoltura. Le vittime sono bambini, donne, anziani, disabili che non hanno armi fra le mani.
L’obiettivo sembra chiaro: cacciare i palestinesi dalla Striscia. Ai più anziani ritorna alla mente quanto accaduto nel 1948: oltre 700mila arabi palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case nei territori occupati dagli ebrei, dopo la prima Guerra arabo-israeliana. Furono cacciati dalla loro terra con la promessa di un possibile ritorno. Ma Israele non permise più il loro rientro, nonostante fosse stato sancito dalle Nazioni Unite con la risoluzione 194.
Recentemente, l'ex ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen, pochi giorni prima di lasciare il posto a Yisrael Katz, nel corso di un’intervista ad un canale televisivo israeliano vicino alle posizioni di Netanyahu, ha dichiarato: «I paesi arabi o altre nazioni che hanno accolto i rifugiati siriani e ucraini, potrebbero accogliere 10.000 palestinesi ciascuno, alleviando in questo modo la crisi a Gaza». Gli ha dato man forte Ron Dermer, ministro per gli Affari strategici, che ha proposto un piano per “sfoltire” la popolazione di Gaza, inducendo i civili a fuggire in Egitto via terra o in altre parti dell’Africa e dell’Europa via mare, perché il «mare è aperto per loro». Una conferma indiretta a questo “piano” è arrivata dallo stesso primo ministro Netanyahu che ha rivelato, durante una riunione del Likud, di essere all’opera per facilitare la migrazione volontaria degli abitanti di Gaza verso altri paesi. «Il nostro problema è trovare paesi disposti ad assorbire gli abitanti di Gaza, e ci stiamo lavorando», aveva dichiarato. Pare che la nazione disposta ad accogliere i palestinesi cacciati da Gaza sia il Congo.
Non stupiscono queste dichiarazioni, vista la composizione del governo israeliano, un gabinetto affollato di fondamentalisti religiosi in foga messianica e guidato da Benjamin Netanyahu. Riconquistare Gaza: è questo il malcelato e inconfessato obiettivo. Riappropriarsi di quella terra che l’allora primo ministro Ariel Sharon aveva fatto evacuare. Nel 2005 gli abitanti della zona di Gush Katif, nel sud di Gaza, furono costretti ad abbandonare le loro case, che per l’occasione furono demolite, in base a un piano di disimpegno unilaterale israeliano. Una cacciata, dunque. Un esodo forzato. Probabilmente i palestinesi saranno costretti a scappare per trovare un luogo sicuro lontano dalla loro terra, dove ritrovare la loro dignità e umanità perdute.
Il presidente egiziano Abd al-Fattāḥ al-Sīsī, però, parlando lo scorso ottobre al Cairo, nel corso di un vertice per la pace a Gaza, aveva dichiarato che verrà «Rifiutata nuovamente l’emigrazione forzata e lo sfollamento dei palestinesi nel Sinai. Si sbaglia chi ritiene che il tenace popolo palestinese desideri lasciare le sue terre, anche sotto occupazione o bombardamenti».