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LA LETTERA

Io, prete, costretto a tacere su omosessualità e famiglia

Sono un sacerdote, amo la Chiesa e il suo Magistero perenne, e voglio restare fedele alla Sede di Pietro fino alla fine dei miei giorni. La fedeltà a questo - e insegnare la verità su omosessualità e famiglia - mi provoca attacchi e persecuzioni e quel che è peggio sono lasciato solo da chi dovrebbe difendermi. E mi trovo davanti a una drammatica scelta....

Editoriali 24_11_2020

Sono un sacerdote cattolico italiano.

Amo la Chiesa nella quale sono cresciuto, amo il suo Magistero perenne e voglio restare fedele alla Sede di Pietro fino alla fine dei miei giorni. Amo la gente che mi è stata affidata, ogni singola persona che quotidianamente mi è dato di incontrare. Amo la mia vocazione e il ministero che svolgo a servizio del Popolo di Dio.
Non posso né voglio aggiungere altro alla mia presentazione. Di seguito capirete perché.

Mai come in questo momento della mia vita, la fedeltà a quanto sopra elencato mi procura attacchi e persecuzioni. Con la continua tentazione, se non di arrendermi, quantomeno di avvilirmi. E posso attestare che questa esperienza la stanno facendo tanti altri miei confratelli in tutta la Penisola.

La nostra colpa, agli occhi del mondo e agli occhi di buona parte cattolica, sta nell’insegnare sul tema dell’omosessualità e del matrimonio quel che la Chiesa ha sempre insegnato, quel che è scritto a chiare lettere nella Parola di Dio. E cioè che l’attrazione sessuale verso le persone dello stesso sesso è intrinsecamente disordinata e non può essere lecitamente assecondata in alcun caso; inoltre, che l’istituto naturale del matrimonio è soltanto fra un uomo e una donna.

La nostra prassi pastorale circa il prendersi cura delle persone con tendenze omosessuali (che non consiste in altro che nella medesima premura che si deve avere per ogni battezzato) non ha mai avuto bisogno di entrare in contrasto con la dottrina cattolica. Di più: sono precisamente le esigenze poste dal Vangelo di Cristo ad aver dato alle persone omosessuali che negli anni ho incontrato in confessionale, la speranza di abbracciare una vita nuova, libera da schiavitù e dipendenze sessuali ed affettive. Con molti di loro, lo dico con gratitudine, è nata anche una vera amicizia.

La vita mi ha insegnato che la Chiesa accetta tutti, ma non accetta tutto. E questo, lungi dal renderla lontana o retrograda, è precisamente ciò che la rende ancora utile agli uomini. Affinché essi guariscano (non ho alcuna paura di usare questo termine) da ogni miseria fisica e morale, e perché si salvino e si santifichino affrontando le lotte che la Provvidenza gli pone davanti.

Eppure, affermare ciò apertamente, con parola piana e nitida, è diventato la nostra rovina. Il sacerdote che, come me, è convinto della verità scritta nel cuore dell’uomo circa il sesso e il matrimonio, quando non si sia già rintanato in una catacomba di silenzio, tende comunque ad evitare ogni occasione di esporsi pubblicamente.

Sui piatti della bilancia si devono mettere, infatti, da una parte la possibilità di continuare a lavorare con frutto (aiutando tutti nel proprio piccolo, comprese le persone con tendenza omosessuale), dall’altra l’opportunità di far sentire con forza una voce diversa all’opinione pubblica che si è standardizzata su posizioni surreali, mutuate del tutto acriticamente dal gergo LGBT+.

Sì, troppo spesso, si è arrivati al punto di dover operare una scelta fra le due strade, perché chi decide di alzare la voce in pubblico può pacificamente dire addio alla tranquillità personale, al proprio ufficio ecclesiale, alla sicurezza delle persone che gli sono vicine e -dulcis in fundo - alla propria fama.

Ho vissuto tutto questo sulla mia pelle, come tantissimi altri sacerdoti italiani, solo per aver espresso dissenso circa il DDL Zan, a seguito della dichiarazione della CEI che – giustamente – ne denunciava le derive liberticide. Ho ricevuto insulti, minacce di ogni genere e calunnie pubbliche (e continuo a riceverne a distanza di mesi), come li hanno ricevuti le persone a me vicine. Fino a cose che mi vergogno perfino di riportare. Il tutto, nel silenzio o – peggio – nelle dichiarazioni ambigue, di chi, più in alto, avrebbe dovuto difendermi.

Non recrimino, non porto rancore ad alcuno. È tutta gloria, per amore a Dio e all’uomo. Ma una cosa è certa: da qui in avanti, la mia scelta penderà per il primo piatto della bilancia, quello del lavoro umile e nascosto. Che se è vero che un prete deve avere il coraggio di denunciare le organizzazioni criminali (non ci sono altri termini per definire questa valanga di odio strutturato e coordinato da circoli e partiti di sinistra), è anche vero che fare l’eroe per qualche ora e finire schiantato per il resto della vita, non gioverà ad alcuna delle persone che vuole aiutare.

Spero che qualche testata indipendente dall’egemonia del Pensiero Unico, possa pubblicare questo mio personale sfogo, anche a nome di tanti altri confratelli che si trovano nella mia identica situazione.

Caro don Guido,
la ringrazio per la sua lettera così chiara e drammatica allo stesso tempo. Capisco benissimo il suo disagio e quello di tanti altri sacerdoti: essere perseguitati dal mondo viene messo in conto, trovarsi isolato ed emarginato all'interno della Chiesa per difendere il suo insegnamento è una spiacevole novità. Ma come dice lei "è tutta Gloria, per amore a Dio e all'uomo". Sono anche convinto però che non siamo noi a scegliere il momento e il luogo in cui siamo chiamati a dare testimonianza alla verità, se attraverso un lavoro umile e nascosto o con una ferma posizione pubblica. L'importante è farsi trovare pronti là dove siamo chiamati a testimoniare. Come dice Paul Claudel in "Annunzio a Maria": «Santità non è farsi lapidare in terra di Paganìa o baciare un lebbroso sulla bocca, ma fare la volontà di Dio, con prontezza, si tratti di restare al nostro posto, o di salire più alto».