In Cina va così male che si rimpiange Jiang Zemin
Jiang Zemin, ex presidente cinese, è morto a 96 anni. È stato segretario generale del Partito Comunista dopo la rivolta di Piazza Tienanmen. È diventato presidente nel 1993, per continuare l’opera riformatrice di Deng. Fu autore della grande distensione internazionale ed entrò nel Wto, ma fu molto crudele all'interno della Cina.
Jiang Zemin, ex presidente cinese, è morto a 96 anni. È stato segretario generale del Partito Comunista negli anni in cui doveva "normalizzare" la Cina dopo la rivolta di Piazza Tienanmen. È diventato presidente nel 1993, per continuare l’opera riformatrice di Deng. I ricordi che si hanno di lui sono ambivalenti, come tutto nella storia cinese dell’ultimo trentennio: uomo che ora viene rimpianto negli anni ancor più duri di Xi Jinping, ricordato per la spettacolare crescita economica cinese e per la sua apertura al mondo, ma anche capace di grande crudeltà nel condurre le repressioni (soprattutto religiose) all’interno della Cina.
L’ex presidente cinese può addirittura fungere da spunto per una nuova ribellione. Già nel 1989, la morte di Hu Yaobang, primo ministro riformatore quando Deng Xiaoping era presidente, fu all’origine di esequie pubbliche che divennero manifestazioni per la democrazia. Da quelle manifestazioni nacque l’occupazione pacifica di Piazza Tienanmen, la rivoluzione fallita che avrebbe potuto liberare la Cina, se non fosse stata repressa nel sangue il 4 giugno, con migliaia di morti. Jiang Zemin muore in tempi altrettanto turbolenti. La notizia ha fatto circolare sui social network qualche voce su una possibile manifestazione di dissenso, approfittando proprio del periodo delle esequie e delle manifestazioni autorizzate per celebrarne la memoria. Il regime sta prendendo nota e sicuramente cercherà di evitare ogni imprevisto in occasione dei funerali.
Come Hu Yaobang, anche Jiang Zemin viene ora ricordato come leader riformatore. Investito della carica di segretario generale da Deng nel 1989 ed eletto presidente nel 1993, ereditò l’immane compito di continuare la transizione della Cina da un sistema comunista pianificato ad un’economia aperta al mercato (ma sempre controllata dallo Stato). Ereditò un Paese povero, anche se in pieno sviluppo, lo trasformò in uno moderno, molto più aperto al mondo e tecnologicamente più avanzato. Furono anche anni di grande apertura diplomatica che contrastavano con la chiusura e le timide aperture dei decenni precedenti. Nei suoi due mandati, dal 1993 al 2003, Jiang Zemin stabilì ottimi rapporti sia con la Russia (Boris Eltsin, poi Vladimir Putin), sia con gli Usa (Bill Clinton, poi George W. Bush).
Furono soprattutto tre i suoi successi. Nel 1997 riunificò Hong Kong alla Cina, sulla base degli accordi presi da Deng con Margaret Thatcher nel 1984. Due anni dopo venne riunificata anche Macao, venti anni dopo gli accordi sulla sua cessione con il Portogallo. Infine, nel 2001, visto l’importante sviluppo economico della Cina in quel decennio, la Repubblica Popolare entrò a far parte del Wto, pur senza rispettarne gli standard, non essendo ancora definibile come “economia di mercato”. Vi entrò proprio in forza delle ottime relazioni che Jiang aveva stabilito con Clinton. Nemmeno la crisi dei Balcani, dove sulla guerra del Kosovo Usa e Cina erano schierati su fronti opposti e dove vi furono momenti di fortissima tensione (il bombardamento Nato dell’ambasciata cinese a Belgrado) riuscì a rovinare le buone relazioni che si erano ormai stabilite fra la Cina e gli Stati Uniti.
Tuttavia, Jiang Zemin non fu mai un presidente umanitario. La sua era la Cina della persecuzione religiosa e del record di pene capitali nel mondo, sotto di lui i Laogai (campi di lavoro e di rieducazione) funzionavano ancora a pieno regime e si sviluppò il traffico illegale di organi estratti dai condannati a morte. D’altra parte, Jiang era stato scelto da Deng come segretario generale, nel 1989, all’indomani della repressione di piazza Tienanmen, proprio perché il suo predecessore, Zhao Ziyang, era ritenuto troppo moderato.
Sin dai primi anni della sua presidenza, Jiang proseguì con estrema durezza la politica di repressione religiosa nel Tibet, con l’arresto di numerosi monaci e monache, la chiusura di centri religiosi, lo sradicamento sistematico di usi e tradizioni locali. Il Dalai Lama, dal suo esilio, nel 1999 denunciò un “genocidio culturale” ai danni del suo popolo, ad opera del nuovo presidente. Lo stesso anno partì l’ancor più brutale campagna per “eradicare” il Falun Gong, una pratica religiosa che abbinava esercizi fisici a meditazione. Di fronte alla rapida crescita di questa “setta” (come venne ufficialmente definita in Cina) nei suoi sette anni di vita, Jiang mise in piedi un ufficio speciale con il compito di coordinare la campagna per la sua distruzione completa. Centinaia di migliaia di membri del Falun Gong vennero arrestati, subirono interrogatori violentissimi (si stima che circa 2mila morirono sotto tortura) e deportati nei Laogai, dove subirono un trattamento peggiore rispetto agli altri detenuti politici e di coscienza. La pratica dell’espianto degli organi dei condannati prese slancio proprio durante questa persecuzione. Si stima che dai 41mila ai 65mila membri del Falun Gong siano stati condannati e uccisi per questo motivo.
Secondo la Laogai Research Foundation, l’associazione fondata dal dissidente in esilio Harry Wu, fra gli anni Novanta e primi anni Duemila erano 1045 i Laogai ancora in funzione, con un minimo di mezzo milione e un massimo di due milioni di internati durante il suo ultimo anno di presidenza. Nello stesso periodo, si diffuse la pratica del lavoro forzato anche al di fuori dei Laogai, in unità industriali civili dove i prigionieri erano costretti a produrre merci anche per l’esportazione, oppure nei campi a coltivare tè e altre prodotti sia per il mercato interno che per quello estero. Gli anni Novanta furono anche quelli in cui la pena di morte in Cina, per decine di capi d’accusa, era sempre in cima alle classifiche di Amnesty International, con oltre 5mila esecuzioni all’anno. Furono anche anni in cui la “politica del figlio unico” costrinse milioni di donne ad abortire o ad essere sterilizzate a forza, multate o punite con il carcere se mettevano al mondo un secondogenito.
Sarebbe veramente un paradosso che Jiang Zemin, l'uomo posto al vertice del partito dopo il massacro di piazza Tienanmen, ora diventi il simbolo di una libertà perduta e che nel suo nome si possa organizzare una manifestazione per la democrazia. Certo si può sempre cadere dalla padella nella brace: con Xi Jinping. Anche dopo il suo secondo mandato, Jiang mantenne una forte influenza sul Partito, grazie a quella che fu chiamata la "banda di Shanghai", la sua corrente partitica più tecnocratica e vicina al nuovo mondo dell'imprenditoria comunista cinese. Tutta quella cordata (e anche quel modo di fare politica) è ora stata epurata dal nuovo uomo forte Xi, affermatosi proprio con campagne contro la corruzione e con una retorica contro i nuovi ricchi. La Cina di oggi nasce sulle ceneri di quella di Jiang Zemin. Per questo non pochi, fra i perdenti, soprattutto, lo rimpiangono.