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ISLAM

In Africa si arriverà alla "normalizzazione" dei jihadisti

I francesi celebrano un successo in Africa: l'uccisione in un raid di Adnan Abou Walid al Sahrawi, fondatore dello Stato Islamico del Sahara. Il problema è che, morto il leader, lo Stato Islamico continuerà a combattere. E il ritiro dei francesi non fa ben sperare negli sviluppi. I governi del Sahel si preparano a normalizzare i gruppi jihadisti, cooptandoli nella gestione del potere, come sempre avviene in Africa. 

Editoriali 19_09_2021
La taglia su Saharawi

Uno dei più potenti e temuti leader jihadisti, Adnan Abou Walid al Sahrawi, è stato ucciso con un drone dai militari francesi durante un raid effettuato in Mali il 17 agosto. Nel 2015 al Saharawi aveva fondato lo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS, riconosciuto ufficialmente dall’Isis nel 2016), nato per secessione dal gruppo Al-Mourabitoun e cresciuto rapidamente in numero di combattenti, frequenza di attacchi e raggio d’azione, fino a insediarsi, oltre che nel nord del Mali, in Niger e in Burkina Faso. Le regioni contigue dei tre stati ne sono state devastate. L’aumento esponenziale delle vittime civili e dei profughi fa sì che siano ormai considerate l’area più pericolosa e instabile del Sahel. Di recente l’ISGS e gli altri gruppi jihadisti che infestano la regione hanno moltiplicato gli attacchi a convogli e basi militari soprattutto in Mali e in Niger con l’obiettivo di ampliare i territori sotto il loro controllo. Il gruppo non risparmia neanche chi svolge interventi umanitari. Nell’agosto del 2020 al Saharawi in persona aveva ordinato l’uccisione di sei operatori umanitari francesi, insieme alle loro guide, ai loro autisti e a due nigeriani, aggrediti in Niger, mentre visitavano la riserva naturalista di Kouré.

“Un altro importante successo nella nostra lotta contro i gruppi terroristici nel Sahel”: così il presidente francese Emmanuel Macron ha definito la morte di al Saharawi. “Il nostro paese – ha proseguito – stanotte pensa a tutti i suoi eroi, morti per la Francia nel Sahel nelle operazioni Serval e Barkane uccisi, alle loro famiglie in lutto, ai feriti. Il loro sacrificio non è stato inutile. Insieme ai nostri alleati africani, europei e americani andiamo avanti con questa guerra”.

“La morte di al Saharawi infligge un colpo decisivo all’ISGS e alla sua coesione” ha detto durante la conferenza stampa indetta per commentare l’accaduto il ministro francese delle forze armate Florence Parly, tanto più che arriva dopo che cinque dei sette leader del gruppo sono già stati uccisi in altre operazioni realizzate di recente. Adesso, ha aggiunto Bernard Emie, capo della Direzione generale per la sicurezza esterna, bisognerebbe concentrare le forse per neutralizzare anche Iyad Ag Ghaly, il leader di Jamaat Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM), gruppo affiliato ad al Qaeda. “Non abbiamo notizie di un possibile successore di al Saharawi, al momento – ha detto inoltre il ministro Parly – ma probabilmente non sarà facile trovare un leader del calibro di quello che abbiamo appena ucciso”.

Di avviso del tutto diverso è invece Alexandre Raymakers, capo analista per l’Africa della Verisk Maplecroft, una società britannica di consulenza strategica. “La morte di al Saharawi – spiega – può ostacolare le operazioni dell’ISGS nel breve periodo, ma è improbabile che possa danneggiare in modo permanente il gruppo”. 

Altri osservatori sono d’accordo con Raymakers. Non sarà la morte di al Saharawi, sebbene celebrata come un successo, a fermare il jihad africano, così come non è servita la morte di Osama Bin Laden, leader di al Qaeda nel 2011, quella di Abu Bakr al-Baghdadi, il califfo dell’Isis, nel 2019 e, lo scorso maggio, quella del leader di Boko Haram, Abubakar Shekau: ucciso, quest’ultimo, non dalle forze regionali e internazionali impegnate da anni a combattere il jihad nel nord est della Nigeria e nelle regioni del bacino del lago Ciad, ma dall’Iswap (Provincia dello Stato Islamico nell'Africa Occidentale), nato nel 2016 dalla secessione di numerosi combattenti Boko Haram e divenuto il suo maggiore avversario.  

Al contrario, la vittoria dei talebani in Afghanistan, la decisione del Ciad di dimezzare il proprio contingente di 1.200 uomini che militano nel G5 Sahel, l’esercito regionale creato per combattere il jihad (composto di soldati messi a disposizione oltre che dal Ciad, da Mauritania, Mali, Burkina Faso e Niger) possono al contrario dare impulso e determinazione al jiahd.

Più ancora  può farlo l’imminente riduzione dei militari della operazione francese Barkane, che entro fine anno perderà più del 40% delle sue attuali 5.100 unità. Il presidente Macron ha annunciato il ridimensionamento della Barkane all’inizio del 2021 e lo ha ribadito a giugno dicendo di non essere disposto a lasciare che altri giovani francesi perdano la vita in Africa tanto più dal momento che i governi dei paesi del Sahel, constatato l’insuccesso di 20 anni di lotta al terrorismo, meditano di avviare un dialogo con i gruppi jihadisti e a maggior ragione per il fatto che in Africa per un governo “dialogare” con dei gruppi antigovernativi di solito vuol dire offrire ai loro leader non solo l’immunità se depongono le armi, ma anche delle cariche governative, la partecipazione al governo del Paese.

Uno dei casi più clamorosi è stato quello del Fronte unito rivoluzionario, in Sierra Leone, uno dei gruppi armati africani più feroci. Durante la guerra combattuta dal 1991 al 2002  per il controllo delle miniere di diamanti del paese ha terrorizzato la popolazione torturando i civili inermi, ha reclutato bambini soldato rendendoli pazzi di droghe e massacri, li faceva giocare tirando a sorte biglietti con scritti i nomi di parti del corpo e poi scegliendo un bambino per amputare a un prigioniero l’arto sorteggiato. Imprimeva a fuoco sul volto di bambini e adulti il proprio acronimo: RUF. Finita la guerra, gli è stato concesso di diventare un partito politico. Il suo candidato alle elezioni presidenziali del 2018 si è classificato sesto.