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RIFLESSIONI SUL DOLORE INNOCENTE

Il Volto che incontriamo alzando gli occhi

290 cuori spenti e il nostro interrogativo si alza al cielo, alla ricerca di un Dio che risponda. Ma cerchiamo solo un Dio generico, senza attributi. Lo abbiamo dimenticato per non urtare, per assimilarci. Ma ha un nome e un volto: si chiama Gesù Cristo e ha dato senso a quel nostro dolore vivendolo prima di noi nella sua carne. 

Editoriali 29_08_2016

«Signore, e adesso che si fa?», chiede quasi stordito il vescovo di Rieti. «Ma tu, Signore, dove stai?», gli fa eco quello di Ascoli. La domanda sgorga come un pianto, ma resta sospesa nell’indeterminatezza. 290 cuori spenti in un batter d’occhio e il nostro interrogativo si alza al cielo, alla ricerca di un Dio che sappia dare quelle risposte che ci facciano comprendere. 

Ma quelle domande celano il senso recondito dell'ammissione di sconfitta. Abbiamo smesso di interrogare quando abbiamo ritenuto che l’uomo bastasse a se stesso, che Dio era soltanto un inutile soprammobile e adesso che il destino viene a bussare facendoci tremare la terra sotto piedi ci ritroviamo tutti con la testa all’insù come il figliol prodigo a domandare, a ricominciare daccapo come uomini primitivi, a esplorare a tentoni. 

Ma in quell'anelito ci rivolgiamo a un Dio generico, che non ha attributi, perché in fondo è stato dimenticato: per non urtare, per assimilarci, per sembrare più di mondo. Quante volte in questi giorni abbiamo sentito risuonare “Dio” pronunciato come parola tenue, impalpabile, detta quasi per non dare fastidio e non come nome potente e misericordioso? Lo invochiamo nella sventura senza curarci di lui nella spensieratezza perché nella spensieratezza tutto ciò che sta sulla terra bruna ci basta. E' un Dio plasmato a immagine dei nostri idoli chiamati civiltà, progresso, libertà, autodeterminazione.

Invece ha un volto chiamato Gesù Cristo. Basterebbe questa semplice risposta, questo annuncio certificato per aprire uno squarcio nel cielo livido di pianto. Ma facciamo così fatica a dirlo, perché rimane ancora oggi scandalo e stoltezza. 

C’è un non so che di incompiuto nel tentativo umano dei vescovi che sono scesi nell'ospedale da campo delle macerie accatastate per sperare di dare un senso a tutto ciò. Maniche slacciate e badile nelle mani, per dire di essere partecipi di questa disgrazia. E' un sentimentalismo con il quale sono tutti attenti a “non dire cose da preti” o ad accodarsi al bla bla dicendo che è il momento di “stare uniti” o che “dobbiamo avere fede”. Uniti per che cosa? Fede in che cosa e soprattutto in Chi? 

Si resta così, sospesi, con quell’interrogativo inespresso. Il mistero del dolore innocente, della morte di chi non ha colpa ci ha assuefatto tanto che lo abbiamo derubricato a notizia di serie B. Il dolore innocente di chi alle 3.36 vede crollarsi addosso 10 quintali di soffitto di sabbia e cemento ci sembra unico e speciale, ma se lo si guarda bene nelle pieghe è lo stesso dolore innocente di chi ha rotto la sua voce flebile nell’utero della madre. Quello ci manda in crisi, a questo invece ormai siamo abituati. 

Facciamo domande, ma non esigiamo risposte. Che ci paiono una pretesa che non meritiamo quando invece ce le meritiamo eccome perché ci sono state date versando sangue di Dio. Che cosa sono la Passione e la Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo se non la prova d’amore di questo sangue innocente versato per una salvezza che ci abbraccia dall’alba della prima domenica in cui la terra è stata riunita al cielo? E’ questa la risposta che attendiamo, questa la chiave per capire e accettare.

Rispondendo a una bambina giapponese che aveva perso tutto nel corso di un terremoto, nel 2011 papa Benedetto XVI affrontò il mistero del male e della morte come stiamo facendo tutti noi oggi. «Perché voi dovete soffrire tanto - disse -, mentre altri vivono in comodità? E non abbiamo le risposte, ma sappiamo che Gesù ha sofferto come voi, innocente, che il Dio vero che si mostra in Gesù, sta dalla vostra parte». E’ questa la risposta che manca nei tiggì, nei talk e nelle prediche. Questa la risposta che da sola può darci il diritto di sostituire l’ottimismo con la speranza, la spensieratezza con la gioia, la nostra finitezza con l’eternità: il sapere che qualcuno si è fatto carico nella sua carne del nostro dolore così grande.

Quando la stazione orbitante Esa ci manda le immagini in timeplaps della terra, a colpirci sono i lampi dei temporali. Sembrano tanti piccoli flash di fotografi ad un evento mondano. Nient’altro che lampi intermittenti di durata  inconsistente. Eppure sotto quel lampo ci siamo noi, con il terrore di restare sopraffatti. Noi così piccoli da spaventarci tremendamente di ciò che dall’alto appare così insignificante. Allo stesso modo, se potessimo scrutare nella vastità delle viscere un terremoto di magnitudo 6.0, questo ci apparirebbe come un leggero fremito, un annoiato belato nell’immensità dell’universo che nulla aggiungerebbe alla meraviglia del Creato che ci è regalato. Eppure a noi pare un ruggito che scuote le nostre misere certezze e le nostre ridicole pretese. 

Perché è il limite umano del nostro vestito a starci stretto. Lo indossiamo con superbia e narcisismo, è un filo di tessuto così umile che se venisse reciso non mancherebbe a nessuno. Invece è così importante da interessare grandemente a Dio, tanto che ha accettato nel suo figlio di dare la sua vita perché potessimo indossarlo senza paura. Sapere che per quel filo sottile a Dio è piaciuto immolarsi innocente soffrendo prima di noi è una spiegazione sufficientemente esaustiva che ci aiuterebbe a capire perché alziamo la testa al cielo e perché da quel cielo vedremmo arrivare finalmente una risposta.