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IL LIBRO

Il tempo che rimane: diario dell'amore che vince il male

Un diario sulla malattia, la scoperta di avere un cancro, lo smarrimento davanti alla paura, il dolore, la vita che deve proseguire, gli articoli da scrivere. Ma prima di tutto questo, la fiducia estrema in Dio. Il diario di Mirella Poggialini, giornalista di Avvenire, è diventato un libro pubblicato postumo: Il tempo che rimane.

Cultura 03_06_2016
La copertina del libro di Mirella Poggialini

La vita favorevole aiuta ad avere fede in Dio. Non ci sono problemi economici, la salute c’è, i figli studiano, la famiglia è unita. È davanti alle difficoltà che la fede può vacillare, perché - se Dio c'è - non mi dà una mano? Perché ho davanti a me un medico che maschera «con la parola neoplasia la brutalità del termine cancro», il mio cancro? 

«I mesi di malessere e di dolore, di ricoveri improvvisi in ospedale e di complicati esami clinici hanno trovato una spiegazione: amara, ma vera». E i modi di reagire davanti a una diagnosi del genere stringi-stringi non sono che due: disperarsi davanti al nulla di una vita soltanto terrena o affidarsi a Dio, e – come ha scritto Mirella Poggialini – «raccogliendo a fatica le forze, dopo la botta sul naso che mi ha lasciato senza fiato, sento che ho una strada da percorrere, che non vago smarrita nell'incertezza. La strada della preghiera, innanzitutto: che è la prima cosa apparsa ai miei occhi come un aiuto sicuro».

Molti la ricorderanno bene. Anno 1936, laurea in Storia dell'Arte alla Cattolica di Milano, critica d'arte e cinematografica di Avvenire fin dalla fondazione del quotidiano, dagli anni novanta anche critica televisiva. Uno dei volti della trasmissione Il Grande Talk, una "Pagella" su Tv Sorrisi e Canzoni. E per qualche mese una rubrica su Avvenire – “La strada” – in cui appunto ha raccontato, firmandosi con il nome di fantasia Francesca, la scoperta di avere un cancro, lo smarrimento davanti alla paura, la necessità di un’accettazione che si vorrebbe negare, il rapporto con i medici e gli infermieri, il dolore, la vita che deve proseguire, gli articoli da scrivere. E, sopra tutto questo, prima di tutto questo, la fiducia estrema in Dio e la consapevolezza che la preghiera è il farmaco del quale non si può proprio fare a meno. 

Adesso questo diario è diventato un libro pubblicato postumo: Il tempo che rimane. Diario di una malattia (Interlinea); curato e con una prefazione del giornalista e scrittore Alessandro Zaccuri (che ha appena pubblicato Città- Parole per capire, ascoltarsi e capirsi)  e una postfazione di Alessandro Beltrami sulla Mirella Poggialini critica d'arte. Ma non è la critica d'arte che interessa qui, qui interessa la persona che soffre - intellettuale raffinata - e che afferma: «La malattia mi ha dato qualcosa di buono». È possibile? Una malattia che - come scrive Zaccuri - ha dovuto protrarre il suo assedio per dieci anni, fino al 9 novembre 2014 quando Mirella Poggialini è morta a Carpi, in provincia di Modena.

Mai una volta, in questo suo diario, si pone la domanda che quasi tutti ci porremmo: perché proprio a me è toccata questa croce? Come può un Dio misericordioso volere questo? Invece scrive: «Non sarà che ho fiducia non tanto nella guarigione, che non riesco a concepire, quanto nelle cure e nella sollecitudine di chi si prende cura di me, qui e Lassù? A volte penso che sia un effetto dell'età: che alle soglie della vecchiaia il tempo si accorci, lo sguardo non guardi più tanto lontano, il problema dell'oggi basta e avanza, e ringrazio Dio di avermelo concesso… Il fatto è che la preghiera, quel sentirmi vicina a un aiuto che sento costante, mi rasserena e mi allontana dallo sconforto».

Quello di Mirella Poggialini non è un andare avanti in un dolore senza senso, nella speranza dell’impossibile. È un avere la certezza di un Padre misericordioso che ti tiene la mano nella sofferenza, anzi, che proprio nella sofferenza ti è più vicino, anche se la sofferenza è sempre difficile da accettare. La vecchiaia malata si mostra «a tutto il mondo nella sua fragilità e debolezza, dietro la quale stanno la fede e la speranza».

Questo diario racconta una malattia, eppure parla di vita: «Sembra un paradosso, eppure a volte il malato sente che la malattia gli ha dato qualcosa di buono. La capacità di cogliere il senso della vita in un’armonia nuova, venata di nostalgia sottile, di rivolgersi al mondo con occhi nuovi, di andare oltre, con un coraggio che non sapeva di avere». Perché non è solo.