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Il socialismo dei privilegiati

Come è accaduto che la sinistra sia diventata, nell’ultimo ventennio, il “partito” dei privilegiati, dell’élite, dell’establishment? È un fenomeno innegabile e internazionale. Ed è molto più aggressiva delle classi dirigenti che l'hanno preceduta, in fatto di repressione del dissenso. Ormai include anche le destre, in una SDI, Socialdemocrazia "inclusiva".

Editoriali 08_11_2021 English Español

Come è accaduto che la sinistra sia diventata, nell’ultimo ventennio, il “partito” dei privilegiati, dell’élite, dell’establishment? Un’affermazione che quasi tutti i leader del campo progressista contestano, tranne quelli della frangia di estrema sinistra oppure i non tantissimi pensanti, come Massimo D’Alema, in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della sera del 6 novembre.

Si tratta di un interessante problema sul piano storico, filosofico e politologico. Dacché il campo della sinistra nasce, con la Rivoluzione francese, è accaduto diverse volte che essa andasse al governo, ma ciò non l’aveva trasformata nel partito dei privilegiati - qualcosa di più che una questione di censo e di reddito. Tranne nei paesi comunisti: li sì che la sinistra era (ma i regimi comunisti vivono ancora) il partito dell’establishment, dell’élite, appunto del regime.

E che questo processo sia internazionale, non solo europeo, lo fa comprendere il caso statunitense. Solo negli ultimi decenni infatti, la sinistra si identifica con il Partito Democratico, e viceversa. Ancora ai tempi di Carter, ma persino di Clinton, esistevano larghe fette di Democratici conservatori, ben rappresentati da deputati e senatori. E pure i liberal erano una parte, non necessariamente maggioritaria, del partito, tanto che, durante la sua prima campagna presidenziale, Clinton dovette giurare e spergiurare di non esser un liberal, a differenza della moglie. Oggi quegli sparuti senatori Dem che contestano, in Parlamento, la politica de facto socialista di Biden sono ostracizzati, insultati, minacciati di espulsione.

Questa svolta a sinistra, impressa essenzialmente dall’obamismo ma realizzata ora (vedremo fino a quando) da Biden, non ha coinciso però, statistiche alla mano, con il ritorno del voto operaio e lavoratore verso il Partito Democratico, un’emorragia cominciata ai tempi della catastrofica candidatura di George Mc Govern nel 1972 (il vero mentore degli attuali Dems), intensificata negli anni di Reagan con il cosiddetto blue collar Reaganism, e poi compiutasi con Trump, paradossalmente più nella campagna sfortunata del 2020 che quattro anni prima. Possiamo anzi dire che più il Partito Democratico consolida il suo essere quello dei privilegiati, dei dominanti, dell’élite, dell’establishment, più accentua le proprie politiche di sinistra - socialiste sul piano economico, di guerra culturale (woke, politicamente corretto, critical race theory, genderismo ecc...) sul piano dei valori.

La recente batosta in Virginia, uno Stato non certo profondamente repubblicano, indica che il mix assistenzialismo con sussidi più guerra culturale woke, tanto amato dalla Silicon Valley, un po’ meno dagli stessi californiani, non fa orrore solamente ai blue collar ma anche alla classe media, quella che magari votava sempre democratico. Il socialista tedesco August Bebel, alla fine dell’Ottocento, definiva l’antisemitismo, assai diffuso nella classe lavoratrice tedesca, “il socialismo degli imbecilli”. L’odierna politica progressista potremmo chiamarla nvece “il socialismo dei privilegiati”.

Non vogliamo qui ora tediare il lettore sulla natura e sulle origini  di questi cambiamenti ma solo concludere con due riflessioni provenienti da due quotidiani di New York, tra i più prestigiosi al mondo, uno conservarore, il Wall Street Journal, l’altro progressista, il New York Times. Entrambi si trovano, curiosamente, concordi nello scrivere che il progressismo è diventata ormai l’ideologia dei ceti dominanti - e dominanti anche in modo assai più brutale che in passato, nonostante il linguaggio “inclusivo” e  politicamente corretto.

Sul giornale di Wall Street (andata a sinistra anche questa, scordatevi Gordon Gekko o l’omonimo Lupo omonimo) l’ex direttore ed ora columnist Gerard Baker (For Privileged Progressives, ‘We’ means ‘you’, 1 novembre)  scrive che la moderna sinistra, immersa ormai in una “religione secolare” ripete a tutti gli altri, che di sinistra non sono o non lo sono più, di essere “più competente e virtuosa di te, la classe inferiore”. Baker coglie bene che , negli ultimi cinquant’anni, la sinistra “possiede il controllo ormai totale dell’establishment”. Sono loro i “padroni” ora e ovviamente come tutti i padroni nella storia, dai capi tribali ai patrizi romani, dai monarchi assoluti ai tiranni totalitari, “la loro superiorità si vede dal fatto che i doveri che essi impongono non si applicano a loro stessi. Si applicano solo a voi, i non illuminati”. L’ambientalismo del recente G20 di Roma e di Glasgow è un buon esempio di quello che Baker scrive.

Sul New York Times di pochi giorni dopo, David Brooks (Democrats need to confront their privilege, 4 novembre) scrive che, un tempo partito degli underdog, quello Democratico è ormai diventato quello della élite e dei privilegiati, che vuole imporre la propria visione del mondo, politicamente corretta, woke, “anti razzista” e aggiungiamo noi pure atea e secolarista, attraverso le forzature legislative, oltre a farne permeare università, giornali, tv. La reazione del voto in Virginia però secondo Brooks indica che l’America resiste e che essa si volgerà di nuovo verso Trump se i Democratici non sapranno proporre un “Progressismo per la Nazione”.

Rechiamo molti dubbi che i progressisti possano riuscire in questo compito: se non altro perché hanno perso, persino quelli americani, l’idea e la sostanza dell’appartenenza nazionale. E se l’hanno smarrita gli americani, che mantengono ancora ben salda la loro sovranità, figurarsi gli europei che larga parte della sovranità l’hanno ceduta davanti a un ceto di privilegiati, a una élite, a un establishment tecno-burocratico, che ha nell’ Ue intesa come super Stato federale a dominio (non esplicitato) tedesco il proprio punto di raccordo - benché certo non si esaurisca con Bruxelles.

Tale ideologia attraversa le famiglie politiche, unifica la cosiddetta destra con la cosiddetta sinistra. Ascoltando il linguaggio dei “grandi” e dei “potenti”, come la stampa (solo quella italiana però) chiama presidenti e primi ministri, a Roma e a Glasgow, abbiamo infatti sentito parlare allo stesso modo Scholz e Sanchez, che sarebbero la sinistra, Merkel e Johnson che sarebbero la “destra”, Macron e Draghi che sarebbero il “centro”. Un nuovo Tina, come amava dire Margaret Thatcher (There is no alternative), che ha sostituito il linguaggio unico dei tempi della globalizzazione Felix tra i Novanta e i primi Duemila, con un nuovo pensiero unico, pandemicamente e politicamente corretto.

Acronimo per acronimo, lo chiameremo SDI, social-democrazia inclusiva. Tutti a favore della “inclusività”, parola chiave del linguaggio neo orwelliano che vuol dire diritti delle minoranze di prevaricare le maggioranze; tutti a favore dell’aumento delle tasse per poi “ridistribuire” (da qui il carattere socialista); tutti a favore di leggi di polizia del pensiero: perché l’inclusività è un valore sacro, ma solo se la pensi come loro. Non vale per te: nei fatti, il nuovo linguaggio SDI è molto più violento, censorio, e prevaricatore del Tina di Maggie o del pensiero unico della globalizzazione Felix. Ai quei tempi almeno era ammesso il dissenso, oggi neppure quello, se solo ti permetti di uscire dal perimetro della “inclusività”.