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la seconda sessione

Il Sinodo farsa ridefinisce i peccati secondo una logica politica

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Peccato di "dottrina usata come pietra da scagliare contro" e peccato contro la sinodalità. Ma anche contro i migranti. La seconda sessione del Sinodo apre a contenuti politici o ideologici per chiamare peccato quanto magari è invece buon senso. Dovremo chiedere perdono per aver richiamato qualche principio dottrinale confutando chi lo vuole cambiare?
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Ecclesia 18_09_2024

Il Sinodo sulla sinodalità sta tornando. I lavori in aula di questa seconda sessione dal titolo «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione» si svolgeranno dal 2 al 27 ottobre. Già nei giorni precedenti, però, i sinodali parteciperanno nella basilica di San Pietro a due appuntamenti: un ritiro spirituale che si protrarrà per due giorni (dal 30 settembre al 1 ottobre), e poi una Liturgia penitenziale che, secondo le indicazioni della Segreteria generale del Sinodo, prevede la confessione pubblica di alcuni peccati così elencati: contro la pace; il creato, le popolazioni indigene, i migranti; contro gli abusi; contro le donne, la famiglia, i giovani; contro il peccato della dottrina usata come pietra da scagliare contro; la povertà, la sinodalità ossia mancanza dell’ascolto, della comunione e partecipazione di tutti. 

Questo Sinodo non gode di buona salute. Una ricerca demoscopica, subito cancellata dal Vaticano, aveva attestato che la grande maggioranza degli intervistati non si attendeva niente di buono dal sinodo. La fragilità teologica su cui pretende di fondarsi, le tattiche di politica ecclesiastica di cui è fatto oggetto, la prassi di un dialogo pilotato e includente e, soprattutto, la percezione che il suo punto di arrivo sia stato già deciso e che tutti questi percorsi siano strumentali hanno fatto adoperare la parola “farsa”. Ci si avvicina, quindi, alla seconda sessione con una certa stanchezza.

Il Sinodo sulla sinodalità si dimostra una forzatura, uno strumento per far evolvere la prassi ecclesiale verso qualcosa di nuovo senza dirlo, un progetto pratico per inserire una nuova sensibilità, un modo di fare che cambi il modo di essere, un modo di sentire che cambi il modo di pensare la fede. Come abbiamo già osservato altrove, ciò è evidente anche nell’Instrumentum laboris redatto per questa seconda sessione, e ne troviamo conferma in quel farsesco elenco di peccati di cui chiedere perdono nella Liturgia penitenziale del 1 ottobre.

I peccati qui elencati mancano di forma, non hanno la fattispecie, per cui il fedele non è in grado di valutare cosa significhi peccare nel senso di quei peccati. La forma del furto è appropriarsi di una cosa altrui. Ma qual è la forma del peccato contro i popoli primitivi o contro gli immigrati?  Non ci si può pentire e chiedere perdono di qualcosa che non si riesce a definire e, quindi, a valutare. Peccare contro la pace, il creato, le popolazioni indigene, i migranti … in generale, senza valutare i contenuti dell’azione, le circostanze e le intenzioni, risulta superficiale e moralmente non indicativo. C’è di più: apre facilmente le porte a contenuti politici o ideologici e, alla loro luce, finisce per chiamare peccato quanto magari è invece buon senso. 

Nell’elenco della Liturgia penitenziale appaiono incomprensibili soprattutto due peccati: quello della “dottrina usata come pietra da scagliare contro” e quello contro la sinodalità. Quella espressione sulla dottrina è stata adoperata, come noto, più volte da Francesco, ma altro non è che uno slogan, una frase ad effetto che risulta difficilmente traducibile in un linguaggio teologico. È una frase polemica, per colpire qualcuno, per stigmatizzare ogni atteggiamento di fedeltà alla dottrina contro le minacce di una pastorale avventata, un modo di dire la priorità della prassi sulla dottrina senza affermarlo esplicitamente, o per liquidare quanti ritengono che i fondamenti dottrinali non cambino mai.

La frase che pretende di esprimere questo peccato segue la stessa logica della lotta agli hate speeches, ai discorsi d’odio, che in fondo è un modo per colpevolizzare chi dice verità che non garbano al potere. Oppure assomiglia alla condanna delle fake news: il potere è il primo ad adoperarle, poi però chiama alla lotta contro di esse quando esprimono verità sgradite. Spesso le fake news sono le uniche verità che si sentano. Dovremo chiedere perdono per aver richiamato qualche principio dottrinale confutando chi lo vuole cambiare? Chi ricorda le verità di sempre sarà assimilato ad un lanciatore di pietre?

Ancora più farsesco è il peccato contro la sinodalità. Se c’è un punto chiaro sulla sinodalità è che nessuno sa cosa sia. Lo stesso establishment ecclesiastico afferma che la sua natura è di essere processo: non abbiamo un Sinodo, siamo Sinodo e quindi siamo processo e percorso, e sarà durante questo percorso che scopriremo, ma mai definitivamente, cosa sia la sinodalità. Essa non avrà una forma definita, ma sarà una prassi da sperimentare. 

Su queste basi come si può stabilire un peccato contro la sinodalità? Quando l’autorità stabilisse che questa o quest’altra azione è peccato contro la sinodalità, il processo sinodale si sarà nel frattempo evoluto e a peccare contro di essa potrebbero allora essere i censori. Quando si assume una logica storicistica – come fa la sinodalità come processo -, niente è più peccato, perché quando il peccato viene visto come tale lo si è già superato e non c’è più.



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