Il Sinodo e il rischio di snaturare la Dottrina sociale della Chiesa
La Relazione della prima sessione del Sinodo per due volte fa riferimento alla DSC e invita a divulgarla. Ma la DSC va intesa secondo il modello rilanciato da san Giovanni Paolo II. Se invece la si intende secondo la nuova “sinodalità”, è un bel danno.
La Relazione finale della sessione dello scorso ottobre del Sinodo sulla sinodalità in due punti fa riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa (DSC). Una prima volta ne parla nella sezione dedicata ai poveri (“I poveri, protagonisti del cammino della Chiesa”) con queste parole: «La dottrina sociale della Chiesa è una risorsa troppo poco conosciuta, su cui tornare a investire. Le Chiese locali s’impegnino non solo a renderne più noti i contenuti, ma a favorirne l’appropriazione attraverso pratiche che ne mettono in atto l’ispirazione». Il secondo accenno, contenuto nella sezione “Una Chiesa da ogni tribù, lingua, popolo e nazione”, è più generico: «Emerge la richiesta di una migliore conoscenza degli insegnamenti del Vaticano II, del magistero postconciliare e della dottrina sociale della Chiesa. Abbiamo bisogno di conoscere meglio le nostre diverse tradizioni».
Che almeno l’espressione ci sia è cosa buona. Tuttavia, possiamo fare alcune osservazioni su questi riferimenti alla Dottrina sociale della Chiesa nel Sinodo appena concluso. Che essa sia poco conosciuta è sicuro e che non si faccia nessun tipo di formazione in questo campo lo è altrettanto. Il punto vero però è un altro: come la si intende? Se la si intende in modo sbagliato, allora è meglio non fare formazione ed è un bene che non sia conosciuta, evitando così dei gravi danni. Le Chiese locali dovrebbero impegnarsi nel campo della Dottrina sociale della Chiesa – così si dice – ma questo è molto difficile se i vertici della Chiesa non la adoperano e, anzi, ne negano la struttura e la possibilità, impostando il rapporto tra la Chiesa e il mondo in modo diverso o perfino opposto a quello utile alla Dottrina sociale. La terza cosa che viene detta nelle citazioni viste sopra è l’invito a riappropriarsi delle tradizioni tra le quali il Concilio Vaticano II, il magistero postconciliare e, appunto, la Dottrina sociale della Chiesa. Così però si dimentica che la tradizione è precedente e che la Dottrina sociale della Chiesa nasce prima del Vaticano II. Molti insegnamenti preconciliari non possono essere dimenticati.
Parlare della Dottrina sociale della Chiesa in rapporto ai poveri – come fa la Relazione del Sinodo – è corretto, ma ci si può chiedere se sia sufficiente. La “scelta preferenziale dei poveri” non è il principio primo della Dottrina sociale e, secondo qualcuno, non è nemmeno un vero e proprio principio. Il rischio di scivolare verso interpretazioni riduttive dei poveri è sempre in agguato.
Il modello di Dottrina sociale della Chiesa rilanciato da san Giovanni Paolo II e condensato nel Compendio del 2004 redatto dall’allora Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, la considerava un corpus dottrinale ed elemento essenziale dell’evangelizzazione, chiamando tutte le componenti ecclesiali a farsene carico, dal papa ai vescovi ai sacerdoti ai religiosi ai laici. La Dottrina sociale è “della Chiesa” come organismo, si diceva. Quel modello sì che era “sinodale”, tutti avrebbero dovuto camminare insieme, nel rispetto della struttura gerarchica della Chiesa e alla luce della dottrina. Ora, invece, la nuova sinodalità si muove su altri registri e quel modello è stato abbandonato. (Stefano Fontana)