Il silenzio di Dio, la ribellione di Ivan Karamazov
Davanti allo scandalo del male, alla sofferenza dei bambini, Ivan processa Dio e il suo regno armonioso che fa pagare “ai figli dei figli, per sette generazioni, la colpa dei padri”. Egli è sulla croce con Cristo, ma mentre Ivan si ribella, Cristo si fida di Dio Padre.
“Se Dio e l’immortalità dell’anima non esistono tutto è possibile…se si distrugge nell’uomo la fede nell’immortalità subito si inaridirà in lui non solo l’amore ma ogni forza vitale. Allora niente sarà immorale, tutto sarà ammesso, persino l’antropofagia”. (F. M. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov).
Quel “tutto è possibile” è l’innalzarsi dell’umana precarietà all’orgoglio assoluto di voler essere Dio: colui che decide del bene e del male delle cose. Infatti, se Dio e l’immortalità non esistono, l’uomo non ha più nessun limite, nessuna legge e sarà finalmente “libero”, sarà un uomo nuovo. Per Dio non esistono leggi, dov'è Dio, là tutto è suo. Così, se Dio è ucciso, l’uomo nuovo diverrà padrone di dove sta, e a lui tutto sarà permesso, ogni male morale sarà sconfitto e tutto diverrà soggettivo, individuale, egoistico.
La filosofia di Ivan è la filosofia dell’ateismo che si compie tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento e che trova nei cosiddetti filosofi del sospetto la sua sintesi (Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud). Per questi Dio è un ostacolo che va superato perché fattore di alienazione, così che l'uomo possa essere l'unico responsabile di tutto, anche della vita e della morte. Questo uomo-dio, che diviene per Marx la massa del proletariato, per Freud il super-Io, per Feuerbach una coscienza che si riappropria di tutto ciò che è stato demandato a Dio, diviene in Nietzsche la raffigurazione più esemplare e antropologica di questo nuovo uomo: il super uomo.
In esso si ritrova lo stesso pensiero che Dostoevskij affida a Ivan Karamazov in cui “ogni principio di egoismo e negazione dell’altruismo divengono la nuova morale”. Qui il cuore è svuotato da ogni amore e ogni dovere. A questi principi fa riscontro l’indifferenza e una ragione ed un giudizio piegati al proprio piacere e ad ogni individualistica determinazione della realtà o dell'autogiustificazione assoluta: è la storia di Raskolnikov in “Delitto e castigo”.
La verità non è più determinata dalla realtà, la verità coincide con i propri impulsi, pruriti, idee. Ma Ivan percepisce che ciò nonostante nel suo cuore è in atto una guerra dovuta a qualcosa che non muore mai. Questo uomo-dio, divenuto padrone della vita e della morte (Smerdiakov, dando fondo alle idee di Ivan per affermare di essere Dio si impiccherà nel sottoscala della casa dei Karamazov) vive però nella propria coscienza l’incertezza della sua affermazione. Come se la sua voce non riuscisse a far tacere ciò che porta in sé naturalmente. Infatti quando ad Ivan viene chiesto se Dio esiste, egli a volte esita, a volte ne è convinto, a volte è combattuto. Ivan è tormentato perché non sa arrivare ad una risposta definitiva. Egli è nel dubbio e cerca avidamente la verità. Come per Nietzsche, questo dibattersi nel dubbio, lo condurrà alla follia.
Nel romanzo "I Fratelli Karamazov", Dostoevskji raggiunge una potenza narrativa e drammatica titanica là dove fa incontrare Ivan ed Alësa in una bettola, e i due cominciano a discorrere. Cito a memoria da “Delitto e castigo”: “I giovani qui da noi, quando si ritrovano in un’osteria, parlano dei massimi sistemi, di Dio e di ogni senso". Questo incontro tra i due fratelli è un passo di letteratura “scritto con il sangue” del dubbio, da cui lo stesso Dostoevskij è passato, e raggiunge un'apice riconosciuto a pochi romanzieri di tutti i tempi.
Ivan e Alësa discutono di Dio e di ciò che per Ivan è “lo scandalo del male”. È in questo momento che i due protagonisti iniziano a conoscersi, a divenire prossimi e finalmente fratelli. Dice Ivan: “Sono convinto come un bambino che le sofferenze si rimargineranno e si cancelleranno … che tutto l’abominio umano scomparirà … nel momento dell’armonia universale … che tutto si redimerà, tutte le infamie umane, tutto il sangue versato, basterà a far sì che diventi possibile non solo perdonare ma giustificare tutto ciò che è accaduto fra gli uomini. Sì, tutti gli uomini sono colpevoli, gli è stato offerto il paradiso e loro hanno voluto la libertà, hanno rapito il fuoco dal cielo pur sapendo che sarebbero stati infelici, bisogna compatirli”. Ma poi, quasi inaspettatamente, cambia registro: “Ma i bambini che colpa ne hanno? … È inconcepibile che questi piccini debbano soffrire, e perché occorre comprare l’armonia al prezzo della loro sofferenza? ... Perché devono servire da concime per qualche futura armonia?”.
E incalza ancora: “Com'è possibile che l’abominio, o semplicemente il capriccio, la sete di potere e non ultima l’idea, possa tradursi in atti di violenza sui bambini gratuitamente? … Dove sta Dio? Perché lo permette?” La sofferenza dell’adulto Ivan riesce ad ammetterla come conseguenza del male da loro commesso: “Essi hanno mangiato del frutto proibito, conosciuto il bene e il male, ma i bambini, i bambini no e dunque di cosa sono colpevoli per soffrire a volte terribilmente qui sulla terra? Sono forse castigati per la colpa dei loro padri?”. Ivan questo non lo può accettare, è inconcepibile per lui che un innocente paghi il male altrui. In questo momento egli sembra parlare non al suo interlocutore, Alësa, ma a se stesso. Alësa è lì, in ascolto, ma per Ivan è qualcosa di assente.
Ma qual è l’intento di Ivan, qual è la forza che lo trascina? Processare Dio e il suo regno armonioso che fa pagare “ai figli dei figli, per sette generazioni, la colpa dei padri”. Ivan è l’uomo-dio che si erge a giudice di Dio stesso. “La solidarietà tra gli uomini nel peccato, io la comprendo, come comprendo la solidarietà nell’espiazione, ma la solidarietà nel peccato non riguarda i bambini. E che anch’essi sono solidali con tutti i delitti commessi dai padri, io, una tale verità, non la comprendo e non l’accetto … Ecco perché io non posso credere nel tuo Dio. Io non credo in lui, né nell’immortalità dell’anima”.
Per Ivan nulla vale la sofferenza dei bambini, neanche se essa dovesse servire per acquistare la più grande verità. “Io affermo fin d’ora che tutta la verità non vale un tale prezzo e a Dio restituisco con tutto rispetto il biglietto”. Secondo Ivan, Dio tace e questo è scandaloso. Dio tace alla miseria, all’urlo di bisogno, alla preghiera che sale dal cuore dell’uomo. Per Ivan non ha senso questo silenzio di Dio. Sembra dire: “Mi hai detto di bussare alla tua porta ed io ho bussato; mi hai detto che ero come la pupilla del tuo occhio che avresti protetto ed io son diventato cieco; mi hai detto quanto ero prezioso per te e mi hai perso. Forse ci sei ma dunque perché io prego e tu taci?”.
Anche Ivan è sulla croce con Cristo e forse non lo sa. La voce del Dio fatto uomo è la sua stessa voce (“Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”) ma mentre Ivan si ribella, Cristo si fida di Dio Padre.
- Dostoevskij/1: La domanda più importante della storia