Il Senato secondo Renzi, fragilità di un progetto
Senza passare da un serio dibattito parlamentare, il governo Renzi rischia di naufragare sulla proposta di riforma del Senato. Le contestazioni arrivano anche dall'interno dell'esecutivo.
“Non so se ci sarà un lieto fine, ma questo è un buon inizio”: nel corso della conferenza stampa seguita alla riunione del Consiglio dei Ministri di ieri, il premier Renzi ha così commentato l’annuncio del disegno di legge per la riforma del Senato, un punto chiave del suo programma di governo. Un minimo di cautela e di understatement era inevitabile anche per uno come lui dopo la potente salva di colpi contro il suo progetto venuta il giorno prima dall’interno della sua maggioranza: un’intervista su la Repubblica in cui il presidente del Senato, Piero Grasso, criticava pesantemente il progetto; una messa in guardia da parte di un ministro del suo stesso governo, Stefania Giannini, coordinatrice di Scelta Civica; una lettera aperta contro il progetto di due notabili della sinistra del calibro di Gustavo Zagrebelsky e di Stefano Rodotà, per di più subito sottoscritta anche da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio che per l’occasione hanno per la prima volta abbandonato la loro linea politica anti-sistema.
Il Senato che il governo Renzi propone è un’assemblea di 148 notabili non eletti e non rimunerati: presidenti delle Regioni, consiglieri regionali in rappresentanza dei rispettivi Consigli, sindaci dei comuni capoluogo di Regione e ben 21 membri di nomina del presidente della Repubblica. Restano i senatori a vita e continuano a farne parte gli ex- presidenti della Repubblica. Ribattezzata Senato delle Autonomie, la nuova camera alta non è chiamata a votare né la fiducia al governo, né il bilancio. Il suo nuovo nome è ironico: così come lo si è configurato non dà affatto rappresentanza dignitosa ed efficace alle autonomie. E’ piuttosto una specie di gabbia di canarini in cui lasciar svolazzare e cinguettare i rappresentanti delle “autonomie” che frattanto Renzi è intenzionato a ridurre ai minimi termini. Nel quadro della medesima riforma costituzionale da cui dovrebbe uscire il nuovo Senato viene prevista l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, CNEL: un organismo, per certi aspetti paragonabile al nuovo Senato che si progetta, dimostratosi così inutile che bisogna essere degli addetti ai lavori già solo per ricordarsi che esiste. Il nuovo Senato delle Autonomie ha tutte le carte in regola per fare la stessa fine.
Non c’è dubbio che il “bicameralismo perfetto” sancito dalla nostra vigente Costituzione vada superato. E in vista del suo superamento esistono tanti esempi ben rodati cui fare riferimento, da quello svizzero a quello statunitense, da quello tedesco a quello canadese e rispettivamente australiano. A nessuno di tali esempi è però collegabile il progetto di Renzi che ha piuttosto qualche prossimità con il caso del Senato francese. Rispetto a quest’ultimo però il prospettato Senato delle Autonomie italiano è molto meno rappresentativo e anche molto meno democratico. Anche il Senato francese è una camera di rappresentanza delle autonomie, ma i suoi quasi 350 membri sono comunque eletti, seppur non dal popolo bensì da un collegio elettorale composto di circa 150 mila tra sindaci, consiglieri comunali e altri membri di assemblee elettive compresa l’Assemblea Nazionale (ossia l’equivalente della nostra Camera dei Deputati).
Fermo restando che il Senato italiano è da riformare, sarebbe stato meglio aprire un breve ma intenso dibattito parlamentare attorno ai principi della sua riforma cui il governo avrebbe poi potuto far seguire una sua proposta più meditata. Renzi ha invece puntato al colpo di scena, al coniglio estratto dal cilindro, ma dal cilindro non è uscito un bianco coniglio bensì un gatto di incerto colore e anche un po’ spelacchiato. Il rischio adesso è quello di un naufragio quando invece sia il governo che il Paese avrebbero più che mai bisogno di un lieto fine.