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Ora di dottrina / 143 – La trascrizione

Il sacerdozio di Cristo – Il testo del video

Il sacerdote è colui che “media” tra Dio e gli uomini, perciò il sacerdozio è connaturale a Cristo, il mediatore perfetto. I tre scopi del sacrificio. Sacerdozio levitico e sacerdozio «secondo l’ordine di Melchisedech»: la spiegazione di san Tommaso. Le mediazioni subordinate.

Catechismo 22_12_2024

Oggi dedichiamo la nostra catechesi al sacerdozio di Cristo, o meglio al sacerdozio di Cristo e al suo essere mediatore. Sono due questioni che san Tommaso d’Aquino tratta nella III parte della Somma Teologica, rispettivamente nella quæstio 22 e nella quæstio 26 che sono fortemente legate tra loro, perché il sacerdote è colui che “media” tra Dio e gli uomini e, dunque, il sacerdozio è connaturale a Cristo proprio per il fatto di essere il mediatore per eccellenza tra Dio e gli uomini.

Iniziamo dalla quæstio 22, che san Tommaso dedica appunto al sacerdozio di Cristo. E che si impernia sostanzialmente sui primi due articoli, nei quali egli spiega come mai Cristo sia veramente sacerdote e sia nel contempo vittima. Cristo ha questa identità singolare. Normalmente il sacerdote offre la vittima e quindi è distinto dalla vittima che egli offre nel culto. Invece, nel caso del Signore, abbiamo questa identità, nella sua stessa persona, del sacerdote e della vittima.

Andiamo con ordine e vediamo l’articolo 1. Per argomentare che Cristo è veramente sacerdote, san Tommaso spiega qual è l’ufficio proprio del sacerdote. E conviene richiamarlo, perché abbiamo perso l’idea di chi sia realmente il sacerdote. Oggi, nella nostra mentalità, il sacerdote fa un po’ di tutto e questo ha finito per mettere sullo sfondo e addirittura rimuovere ciò che lo costituisce come sacerdote.

Spiega san Tommaso: «L’ufficio proprio del sacerdote è di essere mediatore tra Dio e il popolo, in quanto egli trasmette al popolo le cose divine e per questo “sacerdote” equivale a “datore di cose sacre”» (III, q. 22, a. 1). Primo aspetto che costituisce il sacerdote: dare al popolo le cose divine, le cose sacre; ha quindi una funzione “discendente”, media tra l’alto e il basso, portando al popolo le cose sacre. Cosa sono queste cose sacre? Evidentemente, le cose sacre sono per eccellenza i sacramenti, res sacræ per definizione. Cose sacre sono anche le verità divine che Dio ha dato nella Rivelazione. Quindi, il sacerdote le porta al popolo mediante l’insegnamento.

Poi, c’è una seconda funzione, “ascendente”. San Tommaso spiega che la mediazione del sacerdote si ha «in quanto offre a Dio le preghiere del popolo e in qualche modo soddisfa dinanzi a Dio per i peccati del popolo» (ibidem). Cioè, quest’altra funzione sta nel fatto di presentare a Dio le preghiere, le offerte del popolo. Quindi, il sacerdote si pone in un crocevia, in un duplice movimento dall’alto al basso e dal basso all’alto, nel dare agli uomini le cose sacre che vengono da Dio e nell’offrire a Dio le offerte, le orazioni degli uomini, perché Dio poi nuovamente faccia scendere, piovere sugli uomini la sua grazia e le sue benedizioni. Questo è il senso del sacerdote.

Ecco perché san Tommaso può dire che a Cristo «si addice sommamente» di essere sacerdote. Perché Cristo è per eccellenza non solo Colui che ci ha portato tutte le grazie del Cielo, ma è la grazia, il dono stesso di Dio nella carne umana, il dono dall’alto per eccellenza, il sacramento per eccellenza. E in Lui sono tutte le cose sacre. Egli è la verità, tutta la verità; è la pienezza di ogni grazia e da Lui ogni grazia discende su di noi, sul mondo, sugli uomini.

Ma anche Cristo ha compiuto l’altro versante: ha presentato a Dio, in Sé stesso, nella propria carne, nella propria umanità, tutte le preghiere, tutti gli aneliti, i desideri degli uomini. E ha presentato il proprio sacrificio, in questa seconda funzione del sacerdozio che abbiamo chiamato “ascendente”, riconciliando gli uomini con Dio, riportandoli a Dio. Ecco perché Cristo è il sacerdote per eccellenza.

Nell’art. 2, san Tommaso spiega anche perché Gesù sia la vittima per eccellenza. È una spiegazione interessante. Anzitutto spiega che cos’è il sacrificio: anche questo è un concetto che abbiamo un po’ perso. «Come dice sant’Agostino, “ogni sacrificio visibile è sacramento, cioè segno sacro del sacrificio invisibile”. Il sacrificio invisibile poi è l’offerta del proprio spirito che l’uomo fa a Dio (...). Si può quindi chiamare sacrificio tutto ciò che l’uomo presenta a Dio per elevare a lui il suo spirito» (III, q. 22, a. 2). È un testo breve ma denso. Anzitutto vediamo come nel sacrificio san Tommaso ponga due aspetti: uno visibile e uno invisibile, ordinandoli tra loro, con la citazione di sant’Agostino: il sacrificio visibile è segno sacro del sacrificio invisibile. Segno perché indica, è unito, porta con sé il sacrificio invisibile. Dunque, un sacrificio “completo” racchiude entrambi gli aspetti: un aspetto visibile, che fa da segno, e un aspetto invisibile, che è propriamente il contenuto, l’offerta di sé a Dio, l’offerta del proprio spirito a Dio.

Dunque, tutto ciò che viene offerto di visibile, di materiale, è fondamentale in quanto veicola un’offerta interiore. Potremmo chiederci: ma non basta l’aspetto interiore, invisibile? No; abbiamo già visto diverse volte che la nostra natura umana non è una natura caratterizzata dall’essere un puro spirito: abbiamo una materialità, una “visibilità”. Dunque, il sacrificio dell’uomo richiede sempre queste due componenti, profondamente unite tra loro.

Questo è il sacrificio. Ma quali sono gli scopi del sacrificio? Perché viene offerto il sacrificio visibile e invisibile?

San Tommaso elenca tre scopi: «Primo, per ottenere il perdono del peccato che lo allontana da Dio. (...) Secondo, per conservarsi nello stato di grazia stando sempre unito a Dio che è la sua pace e la sua salvezza. (...) Terzo, perché lo spirito dell’uomo possa unirsi a Dio perfettamente» (ibidem). Ora, a questi tre scopi corrispondono – e san Tommaso le richiama – tre offerte, tre vittime diverse dell’antica legge. Nell’ordinamento dei sacrifici dell’antica legge erano previsti dei sacrifici offerti in modo diverso a seconda se si trattasse del sacrificio per il peccato, del sacrificio pacifico o, ancora, dell’olocausto. Quindi, abbiamo tre tipi di sacrifici, che quando noi leggiamo il libro del Levitico e quello dell’Esodo – dove si parla in modo minuzioso delle offerte dei diversi sacrifici, delle diverse vittime, ecc. – a volte rimaniamo storditi da questi dettagli e non ne comprendiamo il senso. San Tommaso invece eredita l’approccio dei Padri e sa molto bene che ogni dettaglio dell’Antico Testamento prefigura il Nuovo Testamento, prefigura Cristo.

Dunque, in queste tre offerte, in queste tre vittime, in questi tre sacrifici diversi, era prefigurato lo stesso Cristo. Perché? Perché Cristo è, anzitutto, la vittima offerta per i peccati. Ne parla in particolare nell’art. 3, che riassumo. Con il suo sacrificio sulla croce, Cristo espia i nostri peccati e ci riconcilia con Dio. Li espia quanto alla colpa, perché ci ottiene la grazia che ci converte interiormente; il sacrificio di Cristo non è come un chiudere la partita, fare come se nulla sia mai accaduto, ossia una concezione del perdono molto esteriore, quasi uno scusare, quasi un dire “facciamo finta di niente”, quasi un “coprire”, secondo il linguaggio più luterano. Non è questo, ma è ciò che ci ottiene quella grazia che ci cambia, ci converte, ci trasforma interiormente.

E poi espia i peccati quanto alla pena, perché Egli ha portato su di Sé quelle pene che con i nostri peccati abbiamo meritato; cioè tecnicamente ha soddisfatto per il peccato. Satisfacere: anche questo è un termine sparito in generale dal vocabolario dei cristiani, dal vocabolario cattolico, ma è un termine fondamentale e veramente pregnante. La soddisfazione per la colpa implica che ogni colpa viola un ordine di giustizia. Cioè, il peccato è anzitutto profondamente ingiusto: profondamente ingiusto nei confronti di Dio e del prossimo. C’è un’ingiustizia radicale e quindi un ordine che viene sovvertito, da cui la pena che ne deriva, portando la quale si ristabilisce, si risana questo ordine, si soddisfa il peccato. Cristo, nella sua offerta come vittima, soddisfa per il peccato, è vittima per il peccato.

Ma è anche vittima pacifica, secondo il sacrificio pacifico dell’Antico Testamento. Grazie al sacrificio di Cristo, noi non solo ritroviamo la grazia, persa con il peccato, ma ci possiamo conservare in essa; possiamo cioè rimanere nella pace di Dio che viene data da questo essere in comunione con Lui. Sotto questo aspetto il sacrificio di Cristo ottiene quello che le vittime pacifiche prefiguravano.

Terzo, il sacrificio di Cristo ci unisce perfettamente a Dio, porta a perfezione questa unione, consuma questa unione nella sua perfezione. In questo senso il sacrificio di Cristo compie quello che gli olocausti, il terzo tipo di sacrificio dell’antica legge, prefiguravano. Da che cosa era caratterizzato l’olocausto? Dalla consumazione totale della vittima: nulla poteva essere preso e dato all’offerente e al sacerdote, ma doveva essere tutto consumato, tutto bruciato, a indicare il totale trasferimento della vittima e dell’offerente – che in qualche modo era presente nella vittima – a Dio. Il fumo di questa combustione saliva interamente a Dio e nulla più rimaneva su questa terra. Dunque, anche sotto questo aspetto, Cristo è vittima di olocausto, compie anche questa terza tipologia dei sacrifici antichi.

Bisogna capire cosa voglia dire che Cristo sia vittima. A differenza delle vittime irrazionali dell’Antica Alleanza, che erano o animali o offerte di primizie, Egli è vittima razionale, ragionevole. Cosa vuol dire? Vuol dire che è vittima volontaria; cioè Cristo offre Sé stesso e, in questa offerta, compie l’essere sacerdote e l’essere vittima. Quante volte lo ascoltiamo nella preghiera eucaristica: «offrendosi liberamente alla sua Passione»? Facciamo notare che non sono coloro che uccidono il Signore a offrirlo, perché in costoro non c’è un sacerdozio evidentemente: lo uccidono in odio, lo uccidono perché gli è stato chiesto nel caso di chi ha eseguito materialmente l’uccisione; quindi nessuno di costoro sta esercitando un reale sacerdozio. È Cristo che esercita il sacerdozio, offrendo appunto Sé stesso e unificando il sacerdote e la vittima.

Negli articoli 5 e 6 della quæstio 22, san Tommaso commenta alcuni versetti di un Salmo importantissimo, il 109, che inizia così: «Dixit Dominus, Domino meo – Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra». In questo Salmo, c’è una frase potremmo dire misteriosa, curiosa, singolare, che è nota soprattutto a chi ha l’abitudine di pregare la Liturgia delle ore, in particolare il vespro della domenica: «Tu es sacerdos in æternum secundum ordinem Melchisedech – Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedech» (Sal 109, 4). San Tommaso si occupa di questa frase e nell’art. 5 cerca di spiegarci cosa voglia dire il sacerdozio eterno e poi cerca di spiegare cosa vuol dire secondo l’ordine di Melchisedech, cosa ancora più curiosa.

Perché sacerdozio eterno? Noi sappiamo che Cristo ha offerto Sé stesso sull’altare della croce, in ara crucis, una volta per tutte. Il sacrificio della croce non è qualcosa che si perpetua in eterno: è un evento temporale, quindi collocato in un tempo e in uno spazio ben preciso. E in quanto evento, cessato. Non dobbiamo pensare che in qualche parte, in qualche angolo della terra, questo sacrificio si perpetui. Uno potrebbe dire: “E la Messa?”. Ci arriviamo. Dobbiamo capire che la perpetuità di questo sacrificio non è il fatto che esso non sia stato compiuto in un tempo ben preciso e quindi, quanto a questo tempo, cessato. Ma dura in eterno quanto alla sua virtù.

Ora, come dobbiamo intendere questa virtù? Essendo il Signore vero Dio e vero uomo, tutto ciò che è stato compiuto da Lui nella sua natura umana, è stato compiuto in quanto l’unica persona divina l’ha compiuto: qui ritorna tutta l’importanza del dogma cristologico, delle due nature in un’unica persona. Sotto questo aspetto, c’è una dimensione di questa offerta, della sua forza, efficacia e appunto virtù, che è eterna. Se fosse stato solo uomo, questo sacrificio sarebbe stato solo temporale. Ma poiché Gesù è vero uomo – quindi questo sacrificio è stato veramente temporale, cioè un evento nel tempo – e vero Dio, ecco che questo sacrificio ha una valenza eterna. Potremmo dire che questo sacrificio “si è trasferito” nella sfera dell’eternità. E dalla sfera dell’eternità è in grado di effondere la sua virtù su tutta la storia e sull’eternità stessa, tant’è vero che in Cielo i beati vivono di questo sacerdozio eterno, sono in Cielo perché hanno beneficiato di questo sacerdozio eterno e contemplano Cristo sacerdote eterno, ricevendo perpetuamente in qualche modo la virtù, l’effetto di questo sacrificio. Dunque, in questo senso il sacerdozio di Cristo è eterno.

Ed è precisamente per questo sacerdozio eterno che noi possiamo beneficiare, sacramentalmente, della virtù di questo sacrificio, che è appunto il senso dell’Eucaristia, il senso del sacrificio della Messa, che dunque è vero sacrificio, sebbene non sia la ripetizione del sacrificio della croce quanto al suo aspetto di evento temporale. Non dobbiamo pensare che sull’altare si verifichino tutti i fatti della crocifissione; ciò che abbiamo presente è invece la virtù di questo sacrificio che si fa presente sull’altare, ma non nel senso che si ripetano i dettagli della crocifissione. Tant’è vero che il Concilio di Trento precisa che si tratta di un sacrificio vero ma incruento, proprio per differenziarlo da quell’unico sacrificio del Venerdì Santo.

Quanto invece alla seconda frase, «secondo l’ordine di Melchisedech», san Tommaso spiega che questo riferimento a Melchisedech è importante per comprendere come il sacerdozio di Cristo sia superiore e, potremmo dire, anche “anteriore”, sotto certi punti di vista, al sacerdozio levitico. Il sacerdozio levitico ha un ruolo di prefigurazione, ma non è nella linea del sacerdozio levitico che si inserisce il sacerdozio di Cristo. Il sacerdozio di Cristo si inserisce invece nella linea del sacerdozio di Melchisedech. Ricordiamo l’episodio del capitolo 14 del libro della Genesi, dove troviamo Abramo, il padre del popolo eletto e dunque anche il padre del sacerdozio levitico che si svilupperà dopo. Infatti, Abramo genera Isacco; Isacco genera Giacobbe; da Giacobbe vengono le 12 tribù, tra cui quella di Levi, che è messa a parte proprio per essere la tribù sacerdotale, da cui venivano presi i sacerdoti per tutti gli svariati ministeri che dovevano compiere. Ora, Cristo non si inserisce in questa linea: il sacerdozio levitico è solo una prefigurazione; si inserisce invece nel sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedech, perché Abramo stesso porta le sue offerte, il pane e il vino, a questo Melchisedech; il padre del popolo ebraico offre decime a questo sacerdote, a questo sacerdozio, a indicarne appunto la superiorità rispetto all’altro sacerdozio che sarebbe scaturito da Abramo stesso.

Questo Melchisedech, dunque, esercita un sacerdozio superiore, al quale Abramo stesso offre le proprie offerte, il pane e il vino. Dunque, la frase «Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech» indica una superiorità del sacerdozio di Cristo rispetto al sacerdozio dell’Antica Alleanza.

San Tommaso dice nell’art. 4 che «Cristo è la fonte di ogni sacerdozio, poiché il sacerdote dell’antica legge era figura di lui e quello della nuova legge agisce in suo nome» (III, q. 22, a. 4). Il sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedech pone Cristo al di fuori, potremmo dire, dei sacerdozi storici, al di sopra, come fonte – non come separazione – di ogni sacerdozio: di quelli dell’antica legge in quanto lo prefiguravano; di quelli della nuova legge in quanto agiscono in suo nome. “In suo nome”, attenzione, significa “in persona di”, non significa semplicemente “a nome di qualcuno”, ma indica proprio “in persona di”.

Questo ribadire il sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedech pone il sacerdozio di Cristo al di sopra e come fonte di ogni sacerdozio. Non è l’abolizione, ma è la fonte di ogni sacerdozio.

Questo ci permette anche di affrontare rapidamente l’altra questione dibattuta nella quæstio 26, cioè la mediazione di Cristo. Il sacerdozio di Cristo si radica proprio nel suo ufficio di mediatore. Ora, san Tommaso definisce bene chi è il mediatore, e dunque perché Cristo è il mediatore per eccellenza. Mediatore è colui che unisce in un punto medio due punti estremi che altrimenti non si unirebbero. Dice san Tommaso: «Solo Cristo è il mediatore perfetto tra Dio e gli uomini, in quanto con la sua morte ha riconciliato con Dio il genere umano» (III, q. 26, a. 1). Dunque, è il mediatore grazie a questo sacrificio.

Nell’art. 2, san Tommaso spiega che Cristo è mediatore anche per la sua identità singolare. Il mediatore deve essere distante da entrambi gli estremi perché, se si identifica solo con un estremo, non ha più il ruolo di mediare: «Come Dio, egli non differisce dal Padre e dallo Spirito Santo nella natura e nell’onnipotenza [...]. Invece, in quanto uomo, dista da Dio per la natura, e dagli uomini per la dignità della grazia e della gloria. Così pure in quanto uomo unisce tra loro Dio e gli uomini, comunicando a questi i precetti e i doni di Dio e offrendo a Dio per gli uomini espiazioni e suppliche [vediamo di nuovo il sacerdozio discendente e ascendente]. Perciò si dice con tutta verità che egli è mediatore in quanto uomo» (III, q. 26, a. 2). In quanto ha assunto la nostra natura, Egli ha perfettamente condensato la mediazione perché è in contatto con entrambe le polarità di Dio e dell’uomo; e nello stesso tempo, per capirci, non è “schiacciato” su nessuna di queste due polarità, ma le unisce in un centro che è dato dalla sua persona: persona che ha sia la natura divina che la natura umana.

In questo senso, Cristo è veramente l’unico mediatore, cioè nessuno ha questa caratteristica di mediazione tra Dio e gli uomini come Cristo, perché solo in Cristo abbiamo l’unione ipostatica, cioè la natura umana che viene assunta nella persona del Verbo.

Attenzione, però: quando si parla di Cristo unico mediatore, spiega san Tommaso, «nulla proibisce che altri possano essere detti mediatori tra Dio e gli uomini sotto un certo aspetto» (ibidem). Cioè, mai ci sarà questa unicità di Cristo perché mai ci sarà questa perfezione della mediazione: nessun altro essere umano o essere creato è Dio e uomo. E nello stesso tempo, Dio da solo, il Dio non incarnato, non è mediatore. Per essere mediatore, Dio doveva assumere appunto la nostra natura. Eppure altre mediazioni sono possibili sotto un certo aspetto, come dice san Tommaso. E quali sono queste altre mediazioni? Una è quella angelica. Perché in un certo senso gli angeli sono mediatori? Perché la loro natura li pone al di sotto della divinità, ma al di sopra della nostra umanità. E quindi, sotto questo aspetto, esercitano una mediazione.

Sono mediatori anche, come spiega san Tommaso nella risposta alla prima obiezione della q. 26, i profeti e i sacerdoti dell’antica legge, i quali «furono detti mediatori tra Dio e gli uomini in maniera dispositiva e ministeriale, in quanto cioè prefiguravano e rappresentavano il mediatore vero e perfetto tra Dio e gli uomini. I sacerdoti della nuova legge possono dirsi invece mediatori tra Dio e gli uomini in quanto sono ministri del vero mediatore, quali suoi vicari, conferendo agli uomini i sacramenti della salvezza» (III, q. 26, a. 1).

Dunque, il sacerdozio di Cristo e la sua mediazione unica non tolgono altre mediazioni subordinate, vere ma parziali, come quelle dei sacerdoti dell’Antica Alleanza, «in quanto prefiguravano e rappresentavano», e come quelle dei sacerdoti della Nuova Alleanza, in quanto sono ministri che agiscono nella persona dell’unico mediatore.

Nella sezione dedicata alla mariologia, vedremo che anche la mediazione della Santissima Vergine non è una negazione dell’unicità della mediazione di Cristo, ma si innesta in questa unica mediazione e la esercita sempre in unione con il mediatore, e in subordinazione alla sua mediazione. Tuttavia, come vedremo, anch’essa è una vera mediazione.

Faccio notare che san Tommaso dice molto bene che il mediatore, per essere tale, deve prendere una certa distanza dagli estremi. E dunque anche nel caso del sacerdozio ci deve essere una certa distanza: è per questo che il sacerdote viene consacrato. Con-secrare deriva da secare, cioè “tagliare, dividere”; il sacerdote viene messo a parte, non nel senso che prende una “distanza snob”, di chi non vuole avere nulla a che fare con gli altri, ma nel senso di una distanza sacramentale, per esercitare questa mediazione. È importante anche questo aspetto, cioè il sacro come ciò che è messo da parte, prende una certa distanza. E in questo senso i battezzati sono mediatori, in quanto il Battesimo li consacra, li pone a parte, in un’altra dimensione rispetto a quella del sacerdozio ministeriale. Avremo modo di parlarne quando faremo i sette sacramenti. Ma intanto vediamo che tutti questi aspetti non sono come cassetti chiusi, ma sono collegati. I sacramenti sono innestati nella dottrina della cristologia e dell’identità di Cristo. Tutto si tiene e si collega, con un’illuminazione vicendevole delle diverse verità della fede.



Ora di dottrina / 143 – Il video

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