Il ritorno della riforma centralista
Questa settimana torna alla ribalta la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi. Obiettivo è concentrare il più possibile il potere nelle mani del governo centrale. I danni provocati dalle alluvioni spingono la riforma. Eppure la realtà dimostrerebbe proprio che serve più decentramento.
In questa settimana potrebbe, anzi dovrebbe, tornare alla ribalta la proposta di riforma costituzionale presentata dal governo Renzi.
La proposta, approvata dal Senato, è adesso alla Camera la cui Commissione Affari costituzionali la sta esaminando; e siamo ormai a meno di quindici giorni dalla scadenza del termine per la presentazione degli emendamenti. Si tratta, come osservammo quando se ne stava discutendo in Senato, di una riforma di marcato impianto centralista. Una conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, del fatto che oggi “di fronte al generale smarrimento, la cultura politica punta a una sempre maggiore crescita e concentrazione del potere reale come all’unica via di salvezza”. Stando così le cose c’è da temere che dalle drammatiche e talvolta tragiche alluvioni delle scorse settimane si prenda spunto per un’ulteriore spinta in tal senso.
La logica dell’autonomia responsabile e quella dell’esercizio centralizzato del potere sono opposte e quindi tra loro incompatibili. Se si pretende di intrecciarle i risultati sono pessimi, come bene dimostra il vigente Titolo v della Costituzione, frutto di riforme appunto ispirate a compromessi tra l’una e l’altra. Strumento principe di tale pasticcio è la cosiddetta “potestà legislativa concorrente” fra Stato e Regioni: un motore certo di confusione di competenze, di inefficienza nonché di smantellamento della possibilità di capire chi è responsabile di che cosa; e quindi di poterne tirare la conseguenze sia in negativo che in positivo.
Occorre invece che le potestà sia legislative che amministrative siano ben distinte. Se poi ci fossero parti del Paese dove non sussistono le condizioni sociali, culturali ed economiche che rendono possibile l’esercizio dell’autonomia responsabile, allora è meglio che ivi si torni a governare con i prefetti come al tempo di Giolitti, senza però che ciò diventi un pretesto per negarla agli altri. Riteniamo però che ciò possa valere per singole aree sub-regionali o singoli comuni, ma che non ci sia oggi nemmeno una regione in Italia che non possa venire messa, magari al termine di una specifica fase di transizione, sulla strada dell’autonomia responsabile.
La proposta di riforma costituzionale del governo Renzi viaggia invece in direzione opposta. Venendo al caso che qui appunto ci interessa, essa riporta alla competenza esclusiva dello Stato la "protezione civile" e il "governo del territorio", lasciando alle Regioni la "pianificazione del territorio regionale". In che cosa si distingue il “territorio” che lo Stato governa dal “territorio regionale” che le Regioni pianificano? Come fa lo Stato a essere responsabile della “protezione” di un territorio che non è affar suo pianificare? Come anche un bambino non faticherebbe a capire, i difetti della vigente ripartizione delle competenze vengono dunque non rimediati, ma anzi aggravati. Si apre la via a una voragine di conflitti di competenza e di ricorsi alla Corte Costituzionale per la felicità di chi sta lavorando per trasformarla sempre di più in una terza camera legislativa spuria.
Prima ancora che alla Camera si entri in materia, già del pasticcio si vedono le prime avvisaglie nei battibecchi a scala intercontinentale in corso tra il premier Renzi e alcuni presidenti di Regioni. Dall’Australia, dove ancora si trovava, Renzi ha messo sul banco degli imputati gli amministratori regionali, colpevoli di "vent'anni di politiche del territorio da rottamare, anche in alcune regioni del centro-sinistra". A capo della regione più colpita dalle recenti alluvioni (circa un miliardo di euro di danni) il presidente della Liguria, il suo compagno di partito Claudio Burlando, replica: "Il problema del territorio di cui parla il presidente del Consiglio è legato anche ai condoni edilizi. Non li ha fatti il premier e non li abbiamo fatti noi, ma sono stati fatti a Roma. Tre condoni in 30 anni". Secondo il presidente lombardo, Roberto Maroni, "Renzi ha un’ occasione per dare una risposta concreta e fare quello che il governo si era impegnato a fare e non ha fatto'', vale a dire finanziare le opere che contengano le piene del fiume Seveso a Milano, per le quali mancano 80 milioni "che il governo si era impegnato a mettere nello Sblocca Italia e poi non li ha messi”.
Questi battibecchi, peraltro un po’ squallidi, in cui in prima battuta tutti hanno ragione tutti hanno torto, a nostro avviso dimostrano in modo lampante una cosa sola: che tutte le potestà riguardo alla gestione del territorio devono essere in capo a un solo livello di governo, il più vicino e il più direttamente interessato. Una potestà che deve estendersi anche alla gestione dei bacini idraulici in tutti quei casi in cui, come in Liguria, come a Massa-Carrara, si tratta di bacini a sviluppo locale. Sia in positivo che in negativo tale livello di governo – regionale, provinciale o metropolitano secondo i vari casi –sarebbe così ineludibilmente responsabile della sicurezza del territorio. Siamo certi che in un quadro del genere i governanti imparerebbero presto a essere all’altezza della situazione, e per parte loro i governati imparerebbero presto a scegliere bene da chi farsi governare.