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UE ECOLOGISTA

Il "Ripristino della natura", una disgrazia per l'agricoltura

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Seconda e ultima parte dell'analisi sul nuovo Regolamento europeo per il "Ripristino della natura" (qui la prima parte). L'impatto sull'agricoltura dei piani europei sarà un balzo indietro. Di fatto l'Ue sposa l'idea della "decrescita felice"

- CHI FA LA GUERRA AL CIBO di Alessandra Nucci

Creato 19_07_2023
Agricoltori bavaresi manifestano al Parlamento Europeo

Segue dalla prima parte

Citando il commento a “botta calda” per l’Istituto Bruno Leoni scritto dall’agronomo Flavio Barozzi, presidente della Società Agraria di Lombardia: “la nuova normativa UE afferisce al filone di pensiero che vede l'agricoltura come maledizione per l'umanità, costretta a un duro lavoro da quello che è il vero peccato originale, la sua moltiplicazione eccessiva, che ne avrebbe determinato la “cacciata” dai paradisi terrestri della caccia-raccolta e della pastorizia. Un approccio realistico e costruttivo dovrebbe invece riconoscere il ruolo centrale dell’agricoltura come unica attività umana in grado di produrre risorse rinnovabili a partire da uno dei più straordinari processi biochimici della natura, la fotosintesi clorofilliana, che consente di convertire l'anidride carbonica che le piante assumono dall'atmosfera in molecole organiche da cui tutta la nostra esistenza dipende. Da ciò deriva che occorrerebbe mirare a massimizzare l’efficienza del processo produttivo agricolo riducendo al contempo gli inevitabili impatti”.

Le parole di Barozzi trovano conferma negli obiettivi programmatici enunciati nella premessa al Regolamento, fra i quali spicca l'estensivazione dell'agricoltura europea, da perseguire ad esempio tramite la diffusione del maggese (messa a riposo delle terre) e dell’agricoltura biologica. Tutto questo è in palese contrasto con l’obiettivo indicato da anni dalla FAO che è quello di una “intensificazione sostenibile”, da porre in atto in vista del consistente aumento della popolazione mondiale atteso di qui al 2050 e che sui mercati mondiali delle grandi commodities agricole avrà rilevantissimi impatti.

Di tali impatti le turbolenze sui mercati agricoli mondiali frutto della ripresa post Covid e della guerra in Ucraina ci hanno dato un piccolo assaggio, che non ha evidentemente impressionato a dovere la Commissione e il Parlamento Europeo. In sostanza la Commissione persiste nel propugnare una “decrescita felice” della produzione agricola, da perseguire in primis tramite la diffusione dell’agricoltura biologica, che presenta rese ettariali del 20-70% inferiori a quelle dell’agricoltura convenzionale e una ridotta sostenibilità ambientale, trattandosi di una pratica caratterizzata in genere da bassa efficienza d’uso di fattori non riproducibili quali suolo, acqua ed aria.

Si noti che come strumento utile all’estensivazione viene indicata anche l’agricoltura di precisione, tecnologia di grande interesse ma costosa e che pertanto si giustifica solo in presenza di sistemi intensivi. Del tutto trascurata è invece l’agricoltura conservativa, che mira a conservare risorse come l’acqua, il suolo e la sostanza organica e che pertanto si pone oggi come uno dei pilastri dell’intensificazione sostenibile cui ci esorta la FAO.

Il regolamento per il ripristino della Natura ripropone in sostanza la strategia del Farm to fork, il cui impatto in termini ambientali e socio-economici è stato analizzato in report specifici redatti dal Joint Research Centre della stessa Unione Europea, dalle Università di Wageningen e Kiel e dal Ministero dell’Agricoltura Usa. Da tali documenti emerge con chiarezza che la strategia Ue si tradurrà in riduzione dell’occupazione, aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e perdita di potere d’acquisto dei consumatori.

Su questo come cittadini europei siamo chiamati a riflettere con molta attenzione anche perché la strategia della Commissione europea si configura con chiarezza come una forma di Green washing e cioè di trasferimento all’esterno dell’area Ue di tutto ciò che possa avere impatti sull’ambiente, come in passato è già successo per l’industria chimica e come sta tutt’oggi accadendo per tante attività industriali energivore, messe fuori mercato dagli alti prezzi dell’energia legati ad esempio a scelte stravaganti come quella del governo tedesco di chiudere le proprie centrali nucleari. E qui mi domando se non sarebbe più serio sul piano della difesa dell’ambiente puntare sulla difesa delle attività produttive strategiche (ad iniziare da quelle agricole e forestali) mantenendole sul territorio comunitario e incentivando un’innovazione che concili la sostenibilità ambientale con quella socio-economica.

Ultima considerazione critica è relativa al fatto che nel regolamento si pretende di dare un giudizio sulla naturalità delle aree agricole (oggi in Italia ridotte a 10 milioni di ettari contro i 20 milioni dell’inizio del XX Secolo - anche su questo ci sarebbe molto da dire…), sulla base di un indice legato alla presenza di avifauna selvatica, il che è assai riduttivo rispetto agli indici di biodiversità di norma utilizzati in ambito agricolo e che tengono conto del fatto che l’agricoltura è un’attività svolta in sistemi antropizzati (gli agro-ecosistemi) e che ha un ruolo essenziale non solo per i vari servizi ecosistemici  ma anche e soprattutto per produrre cibo e beni di consumo.

Il Regolamento sul ripristino della Natura, insomma, presenta svariate criticità che avrebbero consigliato di riformularlo, anche alla luce dei pareri negativi espressi dalla Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo e dal Copa-Cageca, organismo che raggruppa gli stakeholder agricoli.

C’è da domandarsi se il Parlamento Europeo non stia in realtà mirando a escludere l’uomo da un’ampia porzione del territorio europeo, destinato a divenire “santuario della religione della Natura” (con la N maiuscola). A ben vedere è quanto da decenni sta accadendo nella nostra montagna alpina ed appenninica, con esiti tutt’altro che tranquillizzanti se si pensa che i “santuari”, privati della millenaria azione di controllo operata dall’uomo, ci stanno letteralmente franando addosso.

E qui non possiamo che concludere dicendo che Leopardi aveva colto con chiarezza aspetti che oggi sfuggono ai seguaci dell’ideologia ambientalistica più estrema. A tale ideologia ha sciaguratamente aderito il socialismo europeo, immemore della critica feroce che Jean de Kervasdoué, già consigliere agricolo del Presidente Mitterrand, porta a tale deriva antitecnologica in un suo libro significativamente intitolato “Ils ont perdu la raison”.

Tale libro inizia con le parole di uno storico che fu anche leader del partito socialista francese, Jean Jaurès (1859-1914): “Le cosiddette produzioni naturali non sono per la maggior parte opera spontanea di natura. Non esistevano né il grano né la vite finché alcuni geni sconosciuti hanno selezionato le piante selvatiche, intuendo in pianticelle tremanti al vento delle praterie il futuro tesoro del grano. È l'uomo che ha costretto la linfa della terra a condensare nel chicco di grano o a ingrossare il chicco dell'uva. Oggi gli smemorati oppongono al vino artificiale quello che chiamano vino naturale, le creazioni della natura alle combinazioni della chimica. Non c'è vino naturale, non c'è grano naturale. Il pane e il vino sono un prodotto dell’ingegno dell’uomo”. (La houille et le blé - L’humanité, 1 agosto 1901)

2. Fine