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VOCAZIONI

Il problema dell'Amazzonia? Sono certi missionari

L'ordinazione di uomini sposati è ormai una vera fissazione. Ieri al briefing la scelta è stata sponsorizzata dal vescovo Verzeletti, che ha anche detto di avere in diocesi uomini eccezionali, con una vita eucaristica costante e che desiderano il bene degli altri. Ma non è questo il criterio per l'ordinazione sacerdotale. Leggasi san Paolo...
-CELIBI E CASTI: IL LIBRO DELLA BUSSOLA 

Editoriali 15_10_2019
Il briefing di ieri, mons. Verzeletti è il terzo da sinistra

Al briefing sul Sinodo di ieri pomeriggio, si è tornati nuovamente a sponsorizzare l’ordinazione di uomini sposati; questa volta è stato il turno di mons. Carlo Verzeletti, vescovo, dal 2004, di Castanhal do Parà, in Brasile. Il vescovo di origini bresciane ha lamentato che «non possiamo ridurre il prete ad un distributore di sacramenti poche volte l’anno [...] I preti devono correre da una parte all’altra, e possono incontrare le comunità al massimo 4-5 volte l’anno. Non hanno il tempo di seguire la vita del popolo, di stare in mezzo alla gente, di offrire una vera cura pastorale». Per queste ragioni mons. Verzeletti ha auspicato l’ordinazione di «uomini sposati per il ministero sacerdotale, affinché l’Eucaristia sia una realtà vicina alle nostre comunità e le persone possano essere accompagnate».

Ancora una volta, ci troviamo di fronte ad un ragionamento che non sembra avere molto a che fare con l’autentica evangelizzazione, ma con un modo piuttosto clericale e funzionalista di affrontare il problema. Più esplicitamente: bisognerebbe iniziare a capire che la mancanza di sacerdoti non è la causa, ma l’effetto di un grave problema che colpisce le comunità cristiane, siano esse dell’Amazzonia o dell’Europa. Ed in effetti, più si ascoltano gli interventi durante i briefing o si assiste alle “celebrazioni” pseudo-liturgiche di questi giorni e più emerge chiaramente che probabilmente buona parte del problema si situa proprio nei vescovi e missionari presenti in Amazzonia, quasi tutti di origine europea.

Nessuna volontà di generalizzare, intendiamoci, ma quando si vede con quanta timidezza si ha il coraggio di annunciare Gesù Cristo come unico Salvatore degli uomini, quando non si capisce con chiarezza da che cosa abbiamo bisogno di essere salvati, quando la liturgia assume i tratti ora di culti pagani, ora di rivendicazioni socio-politiche, allora si ha come minimo il diritto di pensare che quella dell’ordinazione di uomini sposati sia una comoda copertura dei propri misfatti.

L’intervento di mons. Verzeletti ha però assunto una sfumatura diversa dagli altri. Il vescovo missionario ha infatti voluto precisare che «quando parlo di ordinazione sacerdotale di uomini sposati non penso a sacerdoti di seconda categoria, ma a persone preparate che abbiano una vita esemplare. [...] Abbiamo uomini eccezionali, con una vita eucaristica costante: uomini che desiderano il bene per gli altri, che vivono per gli altri». Ed ha aggiunto: «Trovare uomini che vivano l’Eucaristia nel quotidiano è un criterio fondamentale per dire: questo è un modo per celebrare». Per questo, «se il Papa decidesse per l’ordinazione sacerdotale di uomini sposati saprei già chi indicargli».

Dunque avere un’intensa vita eucaristica, desiderare il bene per gli altri sarebbero indicatori sufficienti per la selezione del nuovo “personale”; ma a ben vedere questi non sono altro che orientamenti di una vita cristiana seria, che tende alla santità, non della specifica vocazione agli ordini sacri. Certamente i candidati agli ordini devono avere dei tratti specifici di irreprensibilità, come indica san Paolo scrivendo a Tito (1, 6) e a Timoteo (1 Tm. 3, 2-4; 3, 12); ma tra le condizioni per essere ammessi al sacerdozio, l’Apostolo indica, come tratto specifico, l’essere «mariti di una sola donna». Si tratta di un punto fondamentale da capire.

Questa formulazione, che in latino suona unius uxoris vir, non è una semplice indicazione sul fatto che il futuro sacerdote non dev’essere adultero (e ci mancherebbe) o che non debba essere risposato, ma è - come ha fatto notare de la Potterie - un’espressione tecnica, che compare solamente in riferimento a diaconi, sacerdoti e vescovi e che è strettamente connessa alla continenza perpetua. L’essere mariti di una sola moglie era considerata come la garanzia dell’osservanza della continenza a partire dal momento dell’ordinazione.

Si può capire questo modo di intendere la formula paolina anzitutto dal suo parallelo femminile, «moglie di un solo uomo». Nella prima lettera a Timoteo (5, 9 ss.), San Paolo parla del «catalogo delle vedove», al quale potevano essere iscritte solo una categoria speciale di vedove, ossia quante avevano almeno sessant’anni. Le vedove più giovani infatti «quando vogliono sposarsi di nuovo, abbandonano Cristo»; esse sono dunque più propense a risposarsi, e a rinunciare, di conseguenza, al proposito di continenza per dedicarsi all’unico Sposo, Cristo. Questo significa che l’espressione «moglie di un solo uomo», espressione tecnica per indicare le iscritte al catalogo delle vedove, era strettamente connessa con il proposito della perpetua continenza.

Lo stesso si deve pensare per il corrispondente maschile «marito di una sola donna», così come la tradizione dei primi secoli ha sempre inteso. E’ infatti curioso che la legislazione che imponeva la continenza ai candidati agli ordini maggiori che erano coniugati, si appoggiasse proprio sull’espressione paolina. Papa Siricio, nella decretale Cum in unum del 386, offre l’interpretazione autentica dei testi dell’Apostolo in cui troviamo questa formula. Riferendosi alla continenza richiesta ai sacerdoti “sposati”, il Papa così si esprime: «Forse qualcuno crede che ciò [continuare ad avere rapporti con le proprie mogli] sia permesso, poiché è scritto: “marito di una sola donna” (1 Tm. 3, 2). Tuttavia [San Paolo] non stava parlando di chi persisteva nel suo desiderio di procreare; egli ha parlato in vista della continenza futura». Dunque, il candidato agli ordini «marito di una sola donna», diveniva colui che era stato marito di una sola donna.

Il senso profondo di questa espressione, come scrive ancora de la Potterie, sta nel fatto che la vocazione sacerdotale ha a che fare con la fedeltà ad una sola donna e questa donna è la Chiesa, alla quale ci si dedica totalmente e con cuore indiviso. Per questa ragione, i candidati monogami agli ordini dovevano promettere di interrompere i rapporti coniugali con le propri mogli, perché da quel momento dovevano vivere un altro e più elevato rapporto sponsale.

E’ evidente allora, che a voler essere fedeli all’insegnamento apostolico, la selezione dei candidati al sacerdozio non può basarsi sulla loro semplice “buona condotta”, ma sulla risposta ad una chiamata a dedicarsi interamente alla propria sposa, la Chiesa. Ed è proprio questa prospettiva, attestata dalla Chiesa antica, ad essere completamente obliata nella incessante pressione per strappare al Papa l’autorizzazione per un clero né celibe né continente. Mons. Verzeletti, se vuole essere fedele alla tradizione apostolica, non dovrebbe indicare come candidati al sacerdozio uomini di intensa vita eucaristica e di dedizione al prossimo, ma uomini che avvertono la chiamata a dedicarsi interamente ed esclusivamente ad una sola donna: la Chiesa.