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IL COSTITUZIONALISTA

Il Presidente della Repubblica: l'organo più enigmatico

La debolezza del sistema politico ha portato ad una crescita del ruolo del Presidente della Repubblica che può generare un dis-equilibrio nella dialettica tra Presidente e forze politiche. La funzione di custodia dell’unita nazionale può arrivare fino al punto per cui il Capo dello Stato si fa «portatore» attivo anche di equilibri politici tra maggioranza e opposizione? Non è arrivato, allora, il momento di ripensare la forma di Governo con le sue degenerazioni e pervenire ad un’elezione a suffragio universale?

- IL SUICIDIO DEL CENTRODESTRA di Ruben Razzante

Politica 29_01_2022

Nella forma di Governo parlamentare «a debole razionalizzazione», adottata dalla Costituzione italiana vigente del 1948 nella sua Parte II, si ritiene, sulla scia di ricostruzioni dottrinali formulate fin dalla prima metà dell’Ottocento (Constant), che il Capo dello Stato debba essere posto al di fuori dei tradizionali poteri statali, per venire concepito come l’esclusivo titolare di un quarto (o comunque ulteriore) «potere neutro», spoliticizzato ed imparziale, avente il compito specifico di moderare i conflitti e risolvere le crisi.

Questa concezione di un Presidente della Repubblica astratto dal gioco reciproco del legislativo e dell’esecutivo, in una posizione di terzietà e superiorità, emerge anche in un noto scritto, pubblicato verso la fine della Repubblica di Weimar da Carl Schmitt (1888-1985), in cui si teorizza l’idea del Capo dello Stato quale «tutore della Costituzione» o meglio, per riprendere un’espressione di Piero Calamandrei (1889-1956), la «viva vox Constitutionis».

In oltre sessant’anni di esperienza repubblicana, la natura anfibia, tra poteri formali e informali, di questa figura ha fatto sì che il nostro ordinamento abbia conosciuto differenti interpretazioni di questo ruolo, anche assai diverse tra loro, oltre che, evidentemente, pure differenti interpretazioni da parte degli stessi studiosi: i primi ad essere ben consapevoli di avere di fronte, prendendo a prestito le parole di Livio Paladin (1933-2000), la figura «più enigmatica e sfuggente fra le cariche pubbliche previste dalla Costituzione».

In primo luogo, è innegabile che il Presidente della Repubblica, in quanto eletto dal Parlamento in seduta comune integrato dai delegati regionali, costituisca l’espressione della maggioranza politica esistente al momento della elezione, correndo il rischio, ed i settennati di Napolitano e Mattarella lo hanno dimostrato, di compromettere l’efficienza dell’opera a lui affidata del controllo sui due rami del Parlamento. Controllo che presuppone, come insegnava autorevolmente Costantino Mortati (1891-1985), la sua indipendenza da esso.

La scelta «imposta» dell’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, Mario Draghi, in occasione della crisi dell’Esecutivo Conte II a febbraio 2021, sia pure dopo il fallito mandato esplorativo all’On. Roberto Fico, Presidente della Camera dei Deputati, è stata il risultato di una precisa valutazione politica, peraltro costituzionalmente discutibile, in forza della quale Sergio Mattarella ha ritenuto che la presunzione di concordanza fra le Camere elettive e gli elettori, che sta alla base dell’istituto rappresentativo, assumesse un valore iuris et de iure, e non invece, com’è proprio di una concezione dualistica della forma di Governo accolta dai Costituenti, quale presunzione iuris tantum, suscettibile cioè di venire a controllo specialmente dopo la crisi extraparlamentare del Governo Conte I nell’agosto 2019 e i diversi risultati elettorali (regionali, europee, amministrative) che avevano certificato in modo inequivocabile il crollo di consensi del Movimento 5 Stelle, l’attuale forza politica di maggioranza relativa.

In secondo ed ultimo luogo, continuare a discutere manualisticamente di un Presidente della Repubblica secondo le traiettorie consuete dell’organo di garanzia o di indirizzo politico, nelle numerose varianti in cui questa opposizione concettuale è stata sviluppata in dottrina, era apparso estremamente riduttivo già alla luce delle prime esperienze di Einaudi e di Gronchi, che hanno tracciato le coordinate lungo le quali si sarebbe sviluppata la prassi successiva.

La teoria del Capo dello Stato sfugge, dunque, a ricostruzioni unitarie (Paladin), trattandosi di un organo costituzionale in continua trasformazione, dovendo fare i conti non solo col testo di una Costituzione notoriamente «a maglie larghe», proprio relativamente ai poteri e alla posizione del Capo dello Stato nella nostra forma di Governo parlamentare, ma soprattutto con la prassi degli inquilini del Colle più alto (Andrea Morrone).

Ora, la debolezza crescente e, a quanto pare, senza orizzonte del sistema politico italiano, ben testimoniata dal teatrino in corso in questi giorni a Palazzo di Montecitorio, la crisi inarrestabile della «forma» partito politico, l’incerto bipolarismo seguito alla svolta del 1989, il susseguirsi dal 1993 ad oggi di diversi sistemi elettorali hanno portato ad una graduale e continua crescita del ruolo del Presidente della Repubblica, specie grazie al «potere comunicativo» funzionale alla custodia permanente dell’unità nazionale. Tutto questo, lo chiede il prof. Andrea Morrone dell’Università degli Studi di Bologna, «non si riverbera in un dis-equilibrio nella dialettica tra Presidente e forze politiche a tutto vantaggio del primo?».

Le caratteristiche della forma di Governo parlamentare e l’elezione indiretta del Presidente della Repubblica sono ancora sufficienti a «coprire» l’allargamento di funzioni e il mutamento di posizione conosciuto nella prassi che è pervenuto addirittura, nel contesto della formazione dell’Esecutivo Conte I nel giugno 2018, a rifiutare la nomina di Paolo Savona a Ministro dell’Economia e delle Finanze sulla base di una visione euroscettica ricavabile dalla sua produzione scientifica?

La funzione di custodia dell’unita nazionale può arrivare fino al punto per cui il Capo dello Stato si fa o gli viene richiesto di farsi «portatore» attivo anche di un’unità maggioritaria, ovvero di determinati equilibri politici tra maggioranza e opposizione, della quale non sono generatrici autonomamente le forze politiche?

Non è arrivato, allora, il momento di ripensare la forma di Governo italiana con le sue degenerazioni (si pensi al c.d. parlamentarismo) e pervenire ad un’elezione a suffragio universale e diretto da parte del corpo elettorale volta non solo ad accrescere l’indipendenza del Presidente dagli altri organi costituzionali e di rilievo costituzionale, ma anche garantire una più specifica qualificazione, secondo l’insegnamento mortatiano, nell’individuare i movimenti dello spirito popolare. Quello spirito, tutt’altro che unito, che sta vivendo al suo interno una profonda quanto drammatica lacerazione.

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L'autore di questo articolo è associato di Diritto Costituzionale italiano e comparto e Dottrina dello Stato presso la Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (Svizzera)-Centro Studi Superiore INDEF; Dottore di Ricerca in Istituzioni di Diritto Pubblico; Vice-Referente del Campus universitario e di Alta formazione Unidolomiti di Belluno.