Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Bernadette a cura di Ermes Dovico
CRISI DI GOVERNO

Il partito del non-voto che non fa bene all'Italia

A parte Salvini e la Meloni che vogliono andare al voto anticipato, convinti di vincerlo, tutti gli altri partiti puntano all'auto-conservazione, anche contraddicendosi. Ma siamo proprio sicuri che la palude di una maggioranza pasticciata possa fare il bene dell’Italia e allontanare il rischio spread?

Politica 12_08_2019
Matteo Renzi e i senatori del Pd

Conte sta a Salvini come Monti stava a Berlusconi. Sembra bizzarro quest’accostamento, ma l’evoluzione della crisi di governo apre scenari suggestivi che potrebbero materializzarsi già nelle prossime ore. L’attuale premier è il principale ostacolo per il Capitano, perché potrebbe diventare un riferimento del fronte contrario alle elezioni anticipate e coagulare attorno a sé ampi spezzoni di maggioranza e opposizione.

Come nel 2013 l’allora premier uscente Mario Monti, fondando un suo partito e aggregando i centristi, raccolse quel 10% che impedì a Silvio Berlusconi e al centrodestra di vincere le elezioni, così oggi Giuseppe Conte, come candidato premier dei Cinque Stelle o di una lista apartitica, potrebbe racimolare i consensi di quanti non si ritrovano più nella destra e nella sinistra e di chi in questi mesi ha apprezzato il lavoro dell’attuale premier, soprattutto come mediatore tra due alleati di governo a dir poco rissosi, e come difensore degli interessi italiani a Bruxelles. Un successo di tale operazione impedirebbe a Salvini di governare nella prossima legislatura, perché a quel punto la sinistra e i grillini insieme a Conte potrebbero avere la maggioranza ed eleggere, come sperano, il successore di Sergio Mattarella al Quirinale, nel 2022.

Si infoltisce dunque il partito del non voto, cioè di coloro i quali, presi alla sprovvista dalla decisione di Matteo Salvini di rovesciare il tavolo, non vogliono perdere la poltrona e temono di andare a elezioni anticipate. Per loro, sondaggi alla mano, sarebbe un vero e proprio bagno di sangue, con una sicura decimazione delle truppe. Ci riferiamo anzitutto al Movimento Cinque Stelle, che alle elezioni politiche del 4 marzo prese il premio di maggioranza alla Camera, in quanto di gran lunga primo partito con il 33% dei voti, e oggi si attesta, nelle intenzioni di voto, attorno al 14%.

Ma l’incubo di perdere il seggio taglia trasversalmente tutti gli schieramenti. Nel Pd c’è ormai una netta spaccatura tra i renziani, che sono maggioranza nei gruppi parlamentari e che premono per un esecutivo istituzionale di garanzia che possa prolungare la vita della legislatura almeno fino al 2020, e i seguaci del segretario Nicola Zingaretti, smaniosi di andare alle urne per marginalizzare i sodali di Matteo Renzi e raccogliere i voti degli elettori pentastellati più delusi. Forza Italia ormai è un cumulo di macerie ed è scattato l’allarme del “si salvi chi può”, con molti senatori e deputati pronti a salire sulla scialuppa di Giovanni Toti, che è in marcia di avvicinamento verso i lidi salviniani.

A voler andare alle urne al più presto sono, in realtà, soltanto la Lega e Fratelli d’Italia, convinti di vincere le elezioni e di andare al governo insieme. Per tutti gli altri gruppi politici prevale invece l’istinto di autoconservazione.

Ma oggi si capirà che aria tira. I capigruppo a Palazzo Madama, convocati dalla Presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati, dovranno decidere quando mettere in discussione la mozione di sfiducia al premier Conte presentata dalla Lega. Salvini chiede che venga discussa già in settimana, ma sembra prevalere l’ipotesi del 19 agosto come prima data utile. In linea teorica la mozione potrebbe essere bocciata perché in Senato Salvini può contare solo su una sessantina di senatori. Difficile però per le opposizioni, da Forza Italia al Pd, non votare a favore di quella mozione, dopo tutte le critiche mosse in questi mesi all’esecutivo in carica. Sarebbe la riprova delle loro continue contraddizioni. Basti pensare a Matteo Renzi, che nel 2016 dichiarò che in caso di sconfitta al referendum sulla riforma costituzionale avrebbe abbandonato la politica e invece oggi appare abbarbicato più di tutti gli altri alla poltrona di senatore, che teme di non riavere più nella prossima legislatura. L’ex segretario del Pd ha addirittura aperto alla possibilità di un governo di garanzia Pd-Cinque Stelle, dopo essersi sempre espresso contro qualsiasi accordo con i pentastellati. E che dire di Beppe Grillo, che era scomparso dai radar della politica e oggi tuona contro l’arrivo dei “barbari” (nella sua testa: i leghisti) auspicando un nuovo governo senza il Carroccio che possa scongiurare il rischio elezioni, al fine di non ritrovarsi, dopo urne anticipate, con un manipolo di pochi senatori e deputati.

Tuttavia, anche in caso di bocciatura della mozione anti-Conte, il premier dovrà comunque dimettersi perché non ha più la maggioranza. A quel punto il pallino passerà nelle mani del Quirinale, che potrà scegliere due strade: rapide e poco più che formali consultazioni prima dello scioglimento delle Camere, con possibilità di voto già a fine ottobre; consultazioni più lunghe, al fine di individuare una nuova maggioranza in Parlamento disposta a votare alcuni provvedimenti (riduzione del numero dei parlamentari e prossima manovra di bilancio) prima delle elezioni che a quel punto slitterebbero alla prossima primavera.

A sperare in questa seconda strada sono tutti i sostenitori del non voto, timorosi di una vittoria schiacciante di Matteo Salvini, a quel punto “uomo solo al comando”. Ma siamo proprio sicuri che la palude di una maggioranza pasticciata ed ancora più eterogenea di quella gialloverde possa fare il bene dell’Italia e allontanare il rischio spread? Che affidabilità può dare questo partito del non voto, unito solo dall’opportunismo e dall’odio verso Salvini? Dopo vent’anni di guerra tra berlusconismo e antiberlusconismo ce ne aspettano altri venti di lotta tra salvinismo e antisalvinismo?